Mentre in Europa fa discutere la maxi richiesta di risarcimento presentata dalle autorità Ue a Apple, la casa di Cupertino punta ad aumentare il suo giro d’affari in Giappone adottando sui suoi smartphone una tecnologia made in Japan vecchia di dieci anni.
Martedì scorso l’Unione europea ha ordinato a Apple di risarcire 15 miliardi di dollari di tasse non pagate all’Irlanda al culmine di un’escalation che rischia di minare i rapporti commerciali tra Usa e Ue. L’Europa ha messo sotto indagine i regimi fiscali fin troppo agevolati di cui Apple e altri colossi americani come Starbucks e Microsoft, avrebbero goduto negli ultimi 11 anni.
È un momento non facile per l’azienda guidata da Tim Cook. La sanzione europea arriva infatti a distanza di pochi giorni dalla pubblicazione di uno studio di mercato che segnala un calo delle vendite di Apple nel settore smartphone su scala globale.
Così Apple studia nuove strategie per espandere il proprio business in paesi dove sente meno la crisi. In Giappone, ad esempio. Qui, Apple, nonostante un leggero calo nel volume di vendite, occupa una consistente fetta di mercato degli smartphone (41 per cento) e sarebbe pronta ad aumentare la sua presenza nell’ambito dei servizi di pagamento virtuale per tenere il passo con la concorrenza.
Secondo quanto rivelato da Bloomberg, Apple starebbe collaborando con Sony per installare nei prossimi modelli di iPhone un chip, FeliCa, installato in smart card molto diffuse come Pasmo e Suica. Queste tessere elettroniche sono tra gli strumenti più diffusi in Giappone per i pagamenti, dalle corse in metropolitana alle bibite dei distributori automatici, ma anche sempre di più in negozi e supermercati.
Da dodici anni, il chip FeliCa, sviluppato da Sony e NTT Docomo, il primo operatore telefonico del paese, è in uso anche su alcuni modelli di cellulari — i cosiddetti «Gara-kei», i cellulari «galapagos», dotati di tecnologie avanzate sviluppate in modo autonomo dal resto del mondo, un po’ come la fauna delle isole studiate da Charles Darwin nell’Ottocento — e smartphone.
Cosa lo rende unico rispetto ad altri sistemi di pagamento elettronico diffusi in altre parti del mondo è il tempo minimo di elaborazione della transazione, calcolato in 0,1 secondi. Il pagamento, infatti, si effettua semplicemente passando il chip su un apposito lettore senza l’autorizzazione di un istituto bancario.
Apple, da un lato, sembra interessata a favorire la digitalizzazione dei milioni di supporti fisici — secondo uno studio della Bank of Japan sono 300 milioni in tutto il paese — in semplici app.
Dall’altro, sulla base del successo dei suoi prodotti nel paese-arcipelago, punta a sviluppare un settore, quello dei pagamenti digitali, in ritardo rispetto ai vicini asiatici: prima tra tutti la Cina dove, secondo un recente sondaggio, la diffusione dei metodi di pagamento elettronico si attesta all’86 per cento, e a seguire, Corea del Sud, 85, e Singapore, 56.
La prospettiva sembra attrarre gli utenti iPhone. «Penso che potrei usare un servizio di pagamento su cellulare. Una volta che avevo dimenticato il portafogli a casa, la Suica mi ha salvato», ha spiegato una studentessa 21enne di Tokyo a Bloomberg. «Le app dovranno essere però facili da capire e usare».
In Giappone appena il 17 per cento di chi acquista beni e servizi lo fa con carte di debito, credito o altri sistemi elettronici. Il dato, la metà di quello attribuito all’India, fa del Paese del Sol Levante un «impero del contante».
In ogni caso, se le voci venissero confermate e il sistema dovesse essere adottato sugli iPhone messi sul mercato giapponese, una cosa è certa: sarebbe uno dei pochi casi in cui Apple invece di imporre in maniera uniforme un proprio sistema — vedi alla voce Apple Pay, che nel Sol Levante ha avuto un impatto minimo — decide di integrare nei suoi prodotti una tecnologia nata in Giappone oltre dieci anni fa. Le Galapagos stanno per avere la loro rivincita.
@Ondariva
Mentre in Europa fa discutere la maxi richiesta di risarcimento presentata dalle autorità Ue a Apple, la casa di Cupertino punta ad aumentare il suo giro d’affari in Giappone adottando sui suoi smartphone una tecnologia made in Japan vecchia di dieci anni.