La polizia dell’Haryana, coadiuvata dai reparti speciali, ci ha messo ben due giorni a fare breccia nell’ashram di Guru Rampal, un “santo” dello stato al confine con New Delhi che si rifiutava si presentarsi in tribunale per rispondere dell’accusa di concorso in omicidio. La storia appare per certi versi grottesca ma, come quasi sempre in India, dà spunto per riflessioni un po’ più ampie di “ma davvero questo ciarlatano aveva 15mila fedeli a difenderlo nel suo bunker?”

Risposta alla prima domanda: sì, davvero. E, soprattutto per fare i ciarlatani, in India occorre un savoir faire speciale; occorre essere in grado di annusare da che parte tira il vento della disperazione, spiegare le vele e farsi trascinare dall’entusiasmo della massa.
Rampal Dass, oggi 63 anni, proviene da una famiglia di contadini dell’Haryana e fino all’età di 48 anni ha lavorato come ingegnere agricolo. Viene licenziato per “inadempienza” e alla fine degli anni ’90 fonda il suo culto, reinventandosi nelle nuove vesti di Jagatguru Rampal ji Maharaj. Professione: Dio sceso in Terra.
O meglio, reincarnazione di Kabir, poeta e mistico vissuto a cavallo tra il quindicesimo e sedicesimo secolo, promosso al rango di Santo – nel senso che noi diamo al termine santone – grazie alle sue idee rivoluzionarie circa il concetto di fede e devozione. All’osso, sempre aperto ai rimbrotti degli accademici che passano di qui, sintetizzo con: stacchiamoci dall’interpretazione letterale delle scritture come Veda, Upanishad etc., la devozione si può fare anche solo tramite un rapporto “naturale” e istintivo col divino. Anzi, se sei un devoto così, è anche meglio.
Nella reinterpretazione moderna del pensiero di Kabir operata da Sant Rampal – lui, autopromossosi al rango di Santo mentre ancora vivente – la devozione tributata al Dio – cioè sempre Sant Rampal – non necessità di onerosi background culturali né della conoscenza delle scritture. Basta adorare e ascoltare i sermoni universalistici di Rampal, dove si spiega che, in fin dei conti, tutte le religioni e tutti i libri sacri portano verso il medesimo Dio di cui Rampal, coincidenza, rappresenta l’incarnazione scesa sulla Terra. Anzi, scesa in Haryana, per salvare gli oppressi.
Gli oppressi per eccellenza, in Haryana, appartengono alla comunità jat, caste basse di origine contadina tradizionalmente vessate e discriminate dai governanti punjabi, di casta alta e, quando non sikh, spesso aderenti alla corrente hindu dell’Arya Samaj. Teorizzato alla fine del diciannovesimo secolo, il movimento dell’Arya Samaj, sempre sintetizzando al massimo, al contrario di Kabir esalta i Veda come documenti infallibili: nei Veda c’è tutto quello che ci serve sapere e sono da seguire alla lettera (prerequisito non scontato oggi come allora, in India: leggere i Veda e quindi, saper leggere).
La contrapposizione punjabi vs. jat si è protratta nei secoli e il vento della disperazione in poppa a Sant Rampal è stato l’ergersi a baluardo della “lotta di classe” contro le angherie della dirigenza dell’Haryana, in larga parte punjabi.
Rampal, nel suo sito internet, si identifica come la realizzazione divina delle profezie salvifiche di “Prahlad Bhagat in Janm Sakhi Bhai Bale Wali, Jaigurudev of Mathura, Nostradamus, Lady Florence of New Jersey America, Prof. Cheiro of England, Hungary’s astrologer Boriska Silvigar, Dr. Zulvoron of France, American Charles Clark, Mr. Gerard Crise of Holland, American futurist Anderson, Jean Dixon of America, G. Vegilatin” e da quando è disceso sulla Terra, secondo i propri fedeli, ha compiuto una serie di miracoli tra cui la guarigione da malattie incurabili e il ritorno alla prosperità economica di famiglie ridotte in disperazione.
L’impianto quindi è: vi offro una religione alla portata di tutti con una serie di dogmi facili facili.
– vietato visitare templi
– vietata l’adorazione di idoli
– vietati intoccabilità, adulterio, cantare e ballare canzoni “volgari” (cioè non devozionali)
– io ho sempre ragione e dovete fidarvi di me, chiunque mi critichi è un bugiardo
In una decina d’anni il culto di Rampal ha attirato centinaia di migliaia di fedeli in tutta l’India del Nord, rappresentando una sorta di casa comune per gli oppressi delle caste basse, un fortino entro il quale sentirsi protetti dalle discriminazioni giornaliere della società iniqua indiana. Tanti fedeli significa tante donazioni e fama, che porta altrettante donazioni e ulteriore fama. Rampal si dice possieda diverse Bmw e sia attivo nel mercato immobiliare in Haryana, Uttar Pradesh e New Delhi.
Per apprezzare la mole di fedeli di cui gode Rampal e gli artifici multimediali a cui ricorre il suo ufficio stampa per propagare la parola del Santo su internet, qui di seguito un lunghissimo video di un sermone del divino Rampal (è in hindi, ma bastano davvero i primi tre minuti per avere un’idea. E sì, il tema musicale che apre il video è quello dei Pirati dei Caraibi).
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Un seguito simile, realisticamente, mette a repentaglio la presa della politica sull’elettorato, specie nelle zone rurali dove gli elettori sono tanti e – à la Democrazia Cristiana – spesso votano chi gli dice il parroco, cioè il guru.
Nel 2006 Rampal, in uno dei suoi sermoni, attacca il fondatore dell’Arya Samaj, un affronto per il quale in India si ricorre – in uno dei rarissimi casi in cui lo si fa – alla violenza. I fedeli dell’Arya Samaj assediano l’ashram di Rampal, presidiato dal nocciolo duro dei devoti del guru – che, pare, si chiamano “babas commandos” – e negli scontri ci scappa il morto, tra le fila dell’Arya Samaj.
Rampal viene arrestato e accusato di concorso in omicidio, si fa un po’ di galera e riesce ad uscire dietro cauzione. Tra il 2010 e il 2014 si rifiuterà sistematicamente di presentarsi alle udienze del suo caso, adducendo motivi di salute, trincerandosi all’interno del suo ashram di lusso a Hisar (Haryana) dentro il quale – vuole la leggenda – il Santo gode di comfort come schermi al plasma e sale conferenze con aria condizionata.
Rampal salta 43 udienze consecutive e, la scorsa settimana, l’Alta Corte dell’Haryana dà ordine alla polizia di andare a prendersi l’imputato “cercando di spargere meno sangue possibile” (letteralmente).
Lunedì 3000 poliziotti e una decina di camionette blindate raggiunge il Satlok ashram di Rampal, protetto da 15mila (QUINDICIMILA) fedeli incazzati pronti a tutto pur di difendere il loro dio. L’assedio dura due giorni e provoca almeno 250 feriti tra polizia, manifestanti e giornalisti sul posto. La polizia, attaccando con idranti e cariche di lathi (i bastoni in legno in dotazione alle forze dell’ordine), si è scontrata con una marea di devoti armati di bastoni, pietre, bombe carta e – pare, ma da confermare – bombe a mano artigianali piene di acido.
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Nella notte di mercoledì, grazie all’intervento dei corpi speciali, le forze dell’ordine fanno breccia nell’ashram e prendono in custodia il Santo. All’interno trovano sei cadaveri, cinque donne e un bambino di 18 mesi. Causa del decesso, per ora, sconosciuta.
Rampal, secondo i primi test effettuati in ospedale, è risultato in buona salute e presto sarà portato davanti ai giudici dove, oltre all’accusa di concorso in omicidio, ora pendono quelle di sedizione e “muovere guerra contro lo Stato”.
Fenomeni sociali come questo, self made guru che si circondano in pochissimo tempo di centinaia di migliaia di fedeli pronti a tutto, sono decisamente comuni in India e, personalmente, sono uno degli aspetti che mi ha affascinato di più da quando sono arrivato. In particolare il rapporto tra una figura carismatica come un guru e le masse di fedeli o sostenitori che lo seguono spesso acriticamente, alla ricerca di risposte / conforto / sicurezza che non trovano nella società contemporanea.
Ne ho scritto molto, in questi anni, dal santone stupratore Asaram Bapu al fenomeno di Anna Hazare fino al fiorire dei nuovi culti “hindu” di stampo new age. E l’impressione è che, in qualche modo, tutto sia legato dallo stesso filo rosso.
La polizia dell’Haryana, coadiuvata dai reparti speciali, ci ha messo ben due giorni a fare breccia nell’ashram di Guru Rampal, un “santo” dello stato al confine con New Delhi che si rifiutava si presentarsi in tribunale per rispondere dell’accusa di concorso in omicidio. La storia appare per certi versi grottesca ma, come quasi sempre in India, dà spunto per riflessioni un po’ più ampie di “ma davvero questo ciarlatano aveva 15mila fedeli a difenderlo nel suo bunker?”