La Casa Bianca ha chiesto ai suoi economisti di inquadrare la risorgente minaccia del socialismo negli Usa. Il rapporto assimila la democrat Warren a Lenin e la democrazia scandinava alla Bulgaria sovietica. Per scongiurare una timida avanzata socialdemocratica nel voto di midterm
Quando nel 1987 Ronald Reagan gridava «Mr. Gorbaciov, tiri giù questo muro» davanti alla porta di Brandeburgo, probabilmente non immaginava con quale rapidità si sarebbe avverato il suo desiderio. Ma nessuno, proprio nessuno, avrebbe mai immaginato che 40 anni dopo le parole del presidente che ha regalato ai Repubblicani un periodo lunghissimo di egemonia ideologica sugli Stati Uniti, in America si sarebbe svegliato il fantasma del socialismo.
Eppure il 2018 negli States è, con tutti i se e i ma del caso, l’anno del socialismo. O almeno così sembrano credere alla Casa Bianca, se si sono presi la briga di chiedere al Consiglio degli economisti del presidente (il Council of Economic Advisors) di redigere un rapporto di 70 pagine nel quale si spiega perché il socialismo è il male e farebbe il male dell’America.
Il rapporto, si legge nell’introduzione, vede la luce proprio perché “in coincidenza con il 200° anniversario della nascita di Karl Marx, il socialismo sta tornando in auge nel discorso politico americano. Le proposte politiche dettagliate degli autoproclamatisi socialisti trovano consensi in Congresso e in una parte importante dell’elettorato”.
Nel lungo testo si analizzano i disastri economici di Unione Sovietica e Venezuela e si fa una lunga disamina degli effetti che le politiche socialdemocratiche alla scandinava proposte da alcune figure di spicco del partito Democratico e indipendenti – Bernie Sanders ed Elizabeth Warren che, a differenza del senatore del Vermont, non è socialista – avrebbero sulla vita degli americani.
Prima di tutto però, una definizione: “Se un Paese o industria sia o meno socialista è una questione relativa al grado in cui (a) i mezzi di produzione, distribuzione e scambio sono di proprietà o regolati dallo Stato e (b) lo Stato usa questo suo controllo per distribuire la produzione economica senza riguardo per la disponibilità dei consumatori finali di pagare (ad es. dare via le risorse gratuitamente)”.
Una definizione molto larga che include Paesi socialisti come la Bulgaria del 1975 e un qualsiasi Paese europeo del 2018 nel quale lo Stato, in alcuni ambiti, regola e offre servizi gratuitamente, o meglio, pagati attraverso la fiscalità generale. È pur vero che gli economisti ammettono che esistono i beni comuni e che questi sono regolati in un’economia di mercato come quella a stelle e strisce.
L’analisi del socialismo comincia ricordando come una parte dell’aggressione alla proprietà privata avvenne, in Urss e nella Cina di Mao, in agricoltura. “Sebbene l’agricoltura non rappresenti una grande fetta dell’economia degli Stati Uniti, i socialisti contemporanei riecheggiano i socialisti storici sostenendo che l’assistenza sanitaria, l’istruzione e altri settori producono ingiustizia, sono improduttivi e promettono che grandi organizzazioni pubbliche garantiranno equità ed economie di scala. Vale quindi la pena di ricordare che le acquisizioni socialiste in agricoltura hanno prodotto il contrario di quanto promesso: la produzione alimentare è crollata e decine di milioni di persone sono morte per fame nell’Urss, in Cina, nella Corea del Nord”.
L’argomento è fuorviante, perché si guarda alla gestione delle terre in Paesi molto poveri e non alla gestione di servizi in Paesi avanzati. L’argomento, in generale, è che la proprietà pubblica disincentiva la competizione, l’innovazione, lo spirito di iniziativa e non bada a come si spendono i soldi perché l’imprenditore pubblico non sta rischiando soldi suoi. Ci sono, in questi argomenti, degli elementi di realtà ma lo sguardo degli economisti è fuorviante perché la loro non è un’analisi quanto una disputa ideologica (o teologica).
Fermiamoci con le citazioni sul passato remoto e veniamo alla Scandinavia. In sintesi: in quei Paesi il tenore di vita è più basso che in America, le tasse, come hanno ammesso gli stessi governi, erano troppo alte e un americano medio pagherebbe tra i 5 e gli 11mila dollari in più all’anno. E un Ford Ranger in Finlandia vi costerebbe 40mila dollari invece dei 23mila che costa in America – non sono menzionate le tasse per ridurre il parco auto circolanti o le emissioni, che forse contribuiscono al prezzo aumentato e che di socialista non hanno granché -. Argomenti non proprio corretti e niente ricalcolo delle spese mediche. Giocando con i nomi (“socialista”), gli economisti affiancano Marx e Ocasio Cortez, Piketty e Mao, Lenin ed Elizabeth Warren.
Il rapporto si dimentica poi le diseguaglianze che stanno producendo il piccolo revival socialista in America. Piketty, le cui teorie vengono citate e criticate dagli economisti di Trump, non ha venduto tanti libri solo perché sono buoni ma perché nell’America del post crisi del 2008 c’è ancora indignazione per come sono distribuite le risorse e perché l’ascesa sulla la scala sociale è diventata più ripida e scivolosa di un tempo.
Ma davvero negli States è in corso una marcia trionfale socialista? Per certi aspetti sì. I Democratic socialists of America (Dsa), che non sono un partito e infatti partecipano alle primarie democratiche, hanno fatto 50mila iscritti in un anno. Il caso di Jacobin, la rivista socialista che presto sbarcherà anche in Italia, è noto: migliaia di abbonamenti, look supercool, redattori giovani, colti e brillanti e un gran successo. Attenzione però, la maggior parte degli iscritti e degli abbonamenti sono a New York e nei campus universitari, non nelle fabbriche o nei magazzini Amazon. E neppure nelle campagne dove lavorano i braccianti messicani.
C’è quindi un fascino intellettuale per l’ideologia che si accompagna al fascino di alcune figure politiche e a dei bisogni insoddisfatti: studiare costa, i salari non ripagano il costo, le case nelle metropoli costano troppo, la sanità è un problema.
Poi ci sono alcuni candidati di sinistra sostenuti anche dai Dsa che arriveranno in Congresso o nelle assemblee legislative dei singoli Stati (Ocasio Cortez, un paio di giovani donne in Pennsylvania, il possibile governatore della Florida, Gilium). Non tutti sono socialisti, tutti avanzano proposte che gli economisti di Trump definiscono tali. Bluffando un po’.
Il bluff più clamoroso è nella disamina della proposta di Medicare for All, la sanità pubblica gratuita per tutti che negli Usa è appannaggio degli anziani e che in anni recenti è cresciuta in materia di coperture in diversi Stati. Anche a guida repubblicana. La proposta, come quelle relative alla sperimentazione del lavoro pubblico di ultima istanza – alternativo al reddito minimo di cittadinanza – e alla riforma del sistema del debito studentesco sono ipotesi che buona parte dei candidati democratici alle elezioni di mezzo termine presentano. Un sistema sanitario pubblico o una modalità di finanziare gli studi che non indebiti per una vita non coincidono con la proprietà dei mezzi di produzione ma gli economisti fingono che le due cose si somiglino. E l’idea di questo rapporto, che esce proprio a due settimane dal voto, è quella di spaventare gli elettori moderati: Warren, Mao, Ocasio Cortez, Sanders, Chavez e Castro pensano le stesse cose.
La verità è che sebbene il partito che fu di Roosevelt abbia spostato il suo asse piuttosto a sinistra in risposta al lungo fall-out della crisi, gli Stati Uniti non corrono nessun pericolo socialista. Più candidati collocati a sinistra hanno vinto le primarie e qualcuno tra questi verrà eletto. I conti su candidati, potenziali eletti e sulla loro collocazione politica ci dicono che in Congresso arriveranno figure nuove, diverse e con idee che non si sentivano da decenni a Washington. Ma i socialisti saranno comunque una minoranza: il partito Democratico non è il partito di Sanders. E meno che mai di Vladimir Il’ič Ul’janov.
@minomazz
La Casa Bianca ha chiesto ai suoi economisti di inquadrare la risorgente minaccia del socialismo negli Usa. Il rapporto assimila la democrat Warren a Lenin e la democrazia scandinava alla Bulgaria sovietica. Per scongiurare una timida avanzata socialdemocratica nel voto di midterm
Quando nel 1987 Ronald Reagan gridava «Mr. Gorbaciov, tiri giù questo muro» davanti alla porta di Brandeburgo, probabilmente non immaginava con quale rapidità si sarebbe avverato il suo desiderio. Ma nessuno, proprio nessuno, avrebbe mai immaginato che 40 anni dopo le parole del presidente che ha regalato ai Repubblicani un periodo lunghissimo di egemonia ideologica sugli Stati Uniti, in America si sarebbe svegliato il fantasma del socialismo.