Di Maio esulta per la riforma della prescrizione. Ma la lettura che ne dà Salvini ancora una volta è diversa. E i penalisti protestano per il modo in cui è stata affrontato un tema così complesso, “con l’obiettivo di un titolo di giornale e una massa di like sui social”.
L’ultimo conteggio disponibile è del 2016, quando il totale dei reati andati in prescrizione è stato di 145.637: le prescrizioni hanno riguardato prima di tutto i reati di abuso edilizio, a seguire il mancato versamento delle ritenute, poi la guida in stato di ebbrezza, infine i reati di truffa.
Non sono passibili di prescrizione, evidentemente, i reati molto gravi, per i quali è previsto l’ergastolo.
In questi giorni, Luigi Di Maio, confidandosi con la stampa estera, si è ha dichiarato molto contento: «mi sono svegliato bene perché abbiamo raggiunto un accordo sulla prescrizione che mi soddisfa totalmente».
I resoconti sull’accordo tanto soddisfacente sono, come accade spesso alla fine dei Consigli dei Ministri di questo governo, quantomeno bipolari.
Di Maio è contento perché nel 2019 si avvererà la riforma della prescrizione e «bloccherà i furbetti che approfittavano delle lungaggini processuali».
Salvini è contento perché la riforma – che blocca la prescrizione dopo il primo grado – scatterà nel 2020 ma solo se, prima di allora, sarà attiva la riforma dell’intero processo penale.
«Non è così», spiega a sua volta il ministro della Giustizia in diretta radio, «la prescrizione non è legata alla riforma del processo penale».
Comunque sia, l’Unione delle Camere Penali, in risposta a queste nuove decisioni, ha dichiarato quattro giorni di sciopero, con l’obiettivo primario di promuovere dibattiti e approfondimenti su un tema complesso come la riforma del processo penale che, dal loro punto di vista, non può essere liquidato in un vertice di venti minuti, senza aver interpellato né magistrati, né docenti, né avvocati.
«Si legifera sulla vulgata – dicono all’Ucpi – con l’obiettivo di «un titolo di giornale e una massa di like sui social». La riforma, benché futura, viene definita superficiale. D’altra parte, avvisano sempre i penalisti, il sistema penale non è uno strumento di vendetta, il diritto deve presumere sempre l’innocenza dell’accusato e dunque gli approfondimenti processuali non possono essere liquidati come intralci e «arzigogoli da azzeccagarbugli», per usare le parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.
Come ricorda anche il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, in un’intervista a Il Messaggero: «Ridurre i tempi del processo non significa far pagare al cittadino…». Certo, per modernizzare il Paese, renderlo più competitivo e aggiornarne il tasso di civiltà, una complessiva riforma della giustizia è necessaria, urgente, non più rinviabile. La sensazione, però, è che ancora una volta si parta da un dettaglio invece che da una riflessione ampia su tutto il sistema.
Investiamo in Cultura!
Il settore della cultura contribuisce al 4,2% del Pil europeo. In Italia, una recente indagine Symbola-Unioncamere ha concluso che nel 2016 l’insieme del sistema produttivo culturale e creativo nazionale ammonta a 92 miliardi: circa 34 miliardi da cinema, radio, tv, musica, stampa, editoria; oltre 13 miliardi dai settori architettura, comunicazione, design; quasi 8 miliardi dalle arti dello spettacolo dal vivo, teatro, danza e concerti; 3 miliardi dal patrimonio storico-artistico. Tutto ciò raggiunge il 6% della ricchezza prodotta in Italia nel 2016, in aumento rispetto al 2015. Inoltre, risulta dalle analisi, la cultura ha un effetto moltiplicatore sul resto dell’economia: ogni euro speso in prodotti culturali ne genera 1,8 in altri settori.
Un esempio è uno studio sull’indotto generato a Milano dal teatro La Scala: ogni euro di contributo pubblico ricevuto dalla Scala ha generato 2,7 euro di ricchezza per la città, pari a 200 milioni di euro nel 2012, per esempio. In tutte le tante città d’arte italiane si riscontrano analoghi esempi.
Anche sul fronte della spesa nel turismo si registra questo primato economico della cultura: la spesa giornaliera media di un turista al mare è di 67 euro, in montagna 102, nelle visite culturali arriva a 134 euro. Sono questi i famosi giacimenti dell’Italia, che non avrebbero nulla da invidiare a quelli del petrolio.
Eppure, la spesa dello Stato italiano nel 2017 per la cultura ammonta solo allo 0,28% del Pil, era dello 0,80% nel 1955, scesa poi allo 0,19% all’inizio del Duemila.
Numeri irrazionali, visti alla luce di queste ricerche e messi a fuoco nel bel libro Con la cultura non si mangia – Falso! -, scritto dalla professoressa di economia delle Istituzioni culturali della Bocconi Paola Dubini. Nella sua analisi, l’autrice fa anche riflettere sul fatto che, a differenza del petrolio, il patrimonio culturale non è destinato ad esaurirsi e, non solo si rinnova ma, nel tempo, è destinato a crescere.
La cultura sfugge forse alle regole della commercializzazione standard ma è un diesel, scrive la Dubini, che opera “processi di trasformazione sistematica”, “esercizio di benessere personale e collettivo” e “l’investimento nella cultura non è costoso se sostenuto con continuità”.
Cosa aggiungere per descrivere il potere della cultura e convincere che una gestione razionale delle risorse pubbliche non dovrebbe mai tralasciarla? Per esempio, il fatto che esiste una correlazione diretta, sempre secondo le statistiche e le ricerche, tra investimenti in cultura, scolarità e riduzione degli abbandoni scolastici, ma anche tra gli investimenti in cultura e la salute, i livelli di criminalità più bassi, e l’aumento della qualità percepita della vita, scrive ancora la professoressa Dubini che conclude invitando a tenere presente che la “cultura è portatrice sana di ricchezza materiale e immateriale”, pratica etica e politica, soprattutto.
@GiuScognamiglio
Di Maio esulta per la riforma della prescrizione. Ma la lettura che ne dà Salvini ancora una volta è diversa. E i penalisti protestano per il modo in cui è stata affrontato un tema così complesso, “con l’obiettivo di un titolo di giornale e una massa di like sui social”.