In Perù le elezioni dell’11 aprile rischiano di ripetere la solita “tombola corrotta” degli ultimi 200 anni
Un giorno di febbraio, alla vigilia dell’arrivo dei primi lotti di vaccini contro il Covid, si viene a sapere che l’ex Presidente Martín Vizcarra è vaccinato da mesi. La farmaceutica cinese Sinopharm, mentre era impegnata fin da settembre a fare gli studi clinici su 12 mila volontari, consegnava 3200 provette alle autorità per il personale sanitario e gli operatori del piano. Ne hanno approfittato non solo il Presidente e sua moglie, ma anche alcuni Ministri, i rettori di due università private, il nunzio apostolico Nicola Girasoli e una schiera di familiari, amici, consulenti, lobbisti e impresari. Mentre il Paese era piegato dall’epidemia, che qui ha colpito più di 1,2 milioni di persone e sepolto almeno 44 mila morti, compresi centinaia di sanitari, una élite di potenti si proteggeva in gran silenzio. Vacunagate, lo chiamano: è ultimo di una lunga serie di scandali.
In questo clima i peruviani si recheranno alle urne l’11 aprile, ma tutto fa pensare che finirà con un capo di stato debole e un parlamento frammentato, in preda a cartelli elettorali e cordate di potenti e prestanome. “Non è solo un’ipotesi. È l’unico scenario, chiunque vinca”, scuote la testa l’analista politico Mauricio Zavaleta.
Per emergere basta un po’ di appeal, un buon marketing e i contatti giusti. Il candidato con più chance nei sondaggi è George Forsyth con solo l’11% delle intenzioni di voto. Forsyth è un ex calciatore: portiere del Borussia Dortmund prima e nell’Atalanta poi (dove non ha mai giocato una partita), è tornato in Perù da imprenditore con la passione per la politica. Tuttavia, a metà febbraio l’autorità elettorale lo ha depennato per aver mentito sulle sue entrate fiscali, ma lui ha fatto ricorso e potrebbe tornare in pista. Stessa sorte per un altro papabile, Daniel Urresti, ex-generale, sotto processo per l’assassinio di un giornalista nel 1988.
La politica peruviana è un grottesco reality-show. In un’amara analisi per il New York Times, il politologo Alberto Vergara l’ha definita “una tombola corrotta. L’affare è così: durante la campagna, i padroni delle iscrizioni elettorali ricevono finanziamenti e mettono all’asta i posti in lista per il Congresso. Questo ha generato una politica senza lealtà né vincoli tra candidati, partiti e società”.
Il Congresso uscente è in carica solo da un anno, dopo che Vizcarra aveva indetto nuove elezioni e referendum costituzionali, nel tentativo di raddrizzare istituzioni screditate, compreso il sistema giudiziario. Il risultato? Dei 130 congressisti, 68 sono sotto inchiesta. Divisi su tutto, ma con un obiettivo comune: tenere sotto scacco qualunque presidente della repubblica.
È successo anche con Vizcarra, destituito il 9 novembre. Aveva assunto l’incarico nel 2018, perché il predecessore, Pedro Pablo Kuczynski, si era dimesso sempre per tangenti. Negli ultimi trent’anni tutti i presidenti sono stati travolti dalla giustizia: uno si è suicidato, uno è fuggiasco, uno a processo e un altro in carcere. Dichiarato l’impeachment, il presidente del Congresso Manuel Merino si prendeva lo scranno più alto dello Stato. Ai peruviani è sembrato troppo.
Il 14 novembre due enormi marce hanno invaso Lima, i ventenni in prima fila. La “Generazione Bicentenario”, l’hanno chiamata. “Siete incappati nella generazione sbagliata”, gridavano. Il nuovo governo ha dato carta bianca alla polizia: 2 morti, 200 feriti e 73 desaparecidos. L’indignazione e l’isolamento internazionale costringevano Merino a dimettersi. Il 17 novembre, un parlamento sotto choc eleggeva Francisco Sagasti, un impeccabile accademico. A capo del Congresso, invece, Mirtha Vazquez, la più famosa avvocata ambientalista.
Proprio Mirtha Vazquez è la porta che ci fa entrare nell’altro Perù. Il suo nome si incontra anche nelle pagine scritte da Joseph Zárate, Guerre interne, un magnifico esempio di giornalismo narrativo che di recente è uscito in Italia per le edizioni Gran Via. Zárate, classe 1986, ha ricostruito le storie di Edwin Chota, Máxima Acuña e Osman Cuñachì, che hanno difeso le loro comunità dai colossi del legno, dell’oro e del petrolio. “Non potevano contare sullo Stato − dice l’autore – Perché uno Stato fantasma è funzionale a chi detiene il potere economico, in modo da assicurargli mano libera”.
I tre sono diventati degli eroi per necessità o “semplicemente ribelli, nel senso di chi sa dire di no al momento giusto, nonostante tutto quello che gli può capitare”. Da soli, hanno affrontato imprese private o statali che scavano ed estraggono, a qualunque prezzo, avvelenando la terra e l’acqua, cacciando o comprando con poco gli abitanti o facendoli lavorare crudelmente. Joseph Zárate si definisce “uno storico del presente” e dice di “aver dato voce alle persone e alle comunità, per restituire dignità. E ho dato voce anche alle imprese, perché a sentirle parlare si condannano da sole”.
Attorno ai tre protagonisti, diventati simboli delle battaglie ecologiste e sociali, “si muove anche un pezzo di società civile, come il caso di Mirtha Vazquez l’avvocata: è la coscienza critica del paese che ridà senso allo Stato”. È quella scesa nelle piazze di novembre.
“Il problema è che, come in altre occasioni, è stata una mobilitazione spontanea – riflette Mauricio Zavaleta – La gente si mobilita in massa quando sente la democrazia in pericolo, ma non si traduce in un attore stabile. La società civile resta debole e non riesce a pesare sul lungo termine”.
Il Perù non sembra aver fatto mai i conti con le pervicaci radici coloniali, la storia predatoria delle élite dopo l’indipendenza, l’eredità infinita del fujimorismo, sopravvissuto alla caduta del dittatore Alberto Fujimori (1990-2000) e che ha il volto della figlia Keiko, ora alla sua terza sfida elettorale, anche se inseguita dalla giustizia. “Costruire le basi di una repubblica democratica continua a essere una promessa sfuggente”, l’ha definita la documentarista Sonia Goldenberg.
L’onda civica di novembre ha agito da schiaffo: “Il 14 novembre abbiamo solo aperto una porta”, ci dice Gahela Tseng Cari Contreras, giovane candidata per il partito di sinistra Juntos por el Peru, la prima donna trans e indigena a correre per un seggio. Alla testa della sua lista c’è un’altra donna, Veronika Mendoza, che già aveva corso nel 2016, arrivando a un soffio dal ballottaggio. Anche questa volta potrebbe avere qualche chance: “Sarebbe salutare per la democrazia – sottolinea Zavaleta – Non perché sia la migliore, ma perché ridisegnerebbe il campo politico attorno a opzioni diverse, di idee e contenuti, fuori dal brusio indistinto e opaco”.
Gahela, intanto, continua la sua campagna, quasi tutta on-line, festosa nonostante le cicatrici della sua vita e le minacce che continua a ricevere. Parla di diritti civili e sindacali, politiche ecologiche, sostegno ai produttori agricoli indigeni “dimenticati da sempre, ma sono quelli che ci hanno garantito cibo, mentre i rifornimenti erano collassati per l’epidemia”.
Il sistema di potere che ha retto durante i 200 anni di indipendenza ora si mostra insostenibile. A cominciare dalla fonte di quel potere, quella economica. Sempre più spesso, ad esempio, si sente contestare “l’idea per cui estrarre qualunque cosa e a qualunque costo sia inevitabile – sottolinea Joseph Zárate − In tanti, a partire dalle comunità andine e indigene, pensano che le risorse non debbano essere estratte, che la terra vada seminata e abitata, curata e rispettata. Non è qualcosa di arretrato, ma un’altra idea di progresso”. Questa idea che si fa strada ricuce anche legami generazionali interrotti: “Mentre scrivevo il libro mi rendevo conto che riguardava anche me. Mia nonna, Mamita Lilì, se n’era andata a Lima giovanissima, veniva da Pucallpa, uno dei luoghi che racconto. Allora ci siamo tornati assieme. Lei mi ha portato nei posti della sua infanzia: ho scoperto il suo mondo”. Storie simili si sentono continuamente in Perù. Sono parte di quella società civile che non riesce a emergere e a cambiare il destino del Paese, mentre tutto attorno il circo politico si muove avido e maldestro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Un giorno di febbraio, alla vigilia dell’arrivo dei primi lotti di vaccini contro il Covid, si viene a sapere che l’ex Presidente Martín Vizcarra è vaccinato da mesi. La farmaceutica cinese Sinopharm, mentre era impegnata fin da settembre a fare gli studi clinici su 12 mila volontari, consegnava 3200 provette alle autorità per il personale sanitario e gli operatori del piano. Ne hanno approfittato non solo il Presidente e sua moglie, ma anche alcuni Ministri, i rettori di due università private, il nunzio apostolico Nicola Girasoli e una schiera di familiari, amici, consulenti, lobbisti e impresari. Mentre il Paese era piegato dall’epidemia, che qui ha colpito più di 1,2 milioni di persone e sepolto almeno 44 mila morti, compresi centinaia di sanitari, una élite di potenti si proteggeva in gran silenzio. Vacunagate, lo chiamano: è ultimo di una lunga serie di scandali.
In questo clima i peruviani si recheranno alle urne l’11 aprile, ma tutto fa pensare che finirà con un capo di stato debole e un parlamento frammentato, in preda a cartelli elettorali e cordate di potenti e prestanome. “Non è solo un’ipotesi. È l’unico scenario, chiunque vinca”, scuote la testa l’analista politico Mauricio Zavaleta.
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