Dietro l’indulto ad Alberto Fujimori, l’ex autocrate in carcere per violazione dei diritti umani, le macchinazioni della famiglia che ancora domina la scena politica del Paese. E che ha salvato il presidente Kuczynski dall’impeachment. Ma le vittime della dittatura non ci stanno
È stato un Natale agitato a Lima. Nelle strade della capitale peruviana sono scese migliaia di persone in collera, appena saputa la decisione del presidente Pedro Pablo Kuczynski (per tutti Pkk) di concedere l’indulto «per ragioni umanitarie» all’ex autocrate delPerù Alberto Fujimori.
Fujimori ha trascorso in carcere 12 dei 25 anni di condanna inflitti per violazione dei diritti umani e sequestro di persona. Ma nonostante il ritorno alla democrazia e il suo ingresso in carcere ha continuato a dominare la scena politica del Perù, appeso al filo del dolore delle vittime e del consenso di cui tutt’ora gode. Lo stesso indulto è l’ultimo atto di un gioco di scacchi guidato da lui e dai suoi figli, tutti protagonisti della vita pubblica.
All’annuncio della clemenza, le proteste sono scoppiate spontanee e migliaia di persone hanno provato a raggiungere la residenza presidenziale a San Isidro e la clinica Centenario dove Fujimori è ricoverato per un presunto peggioramento delle condizioni fisiche.
Il prossimo appuntamento è per domani, 28 dicembre, alle 15 in Plaza San Martin, centro di Lima. L’appello è stato lanciato dai collettivi universitari e dal Coordinamento nazionale per i diritti umani. Sarà «una mobilitazione permanente», promettono gli organizzatori, con l’obiettivo di far dichiarare illegittimo il provvedimento di Kucynski.
Jorge Bracamonte, segretario del Coordinamento è durissimo: «Non è un indulto umanitario, ma un colpo di spugna sui delitti di una banda criminali organizzata dallo stesso Fujimori. È un atto che offende la dignità di un Paese che ha lottato contro la dittatura». Fujimori non aveva solo dato mano libera ai servizi segreti e all’esercito per sradicare a qualunque prezzo la guerriglia di Sendero Luminoso, macchiandosi di migliaia di casi di violazione dei diritti umani, ma usava anche un gruppo para-militare (la Banda Colina) colpevole di due massacri su cui è caduta per lui la mannaia della giustizia. E a guidare la protesta in questi giorni sono i familiari delle vittime.
Ma quello che davvero fa gridare allo scandalo è la trama di potere che sta dietro al provvedimento. Perché questo, aggiunge Bracamonte, «è un indulto codardo, perpetrato di nascosto alle spalle del Paese». Per capire cosa abbia fatto precipitare la situazione bisogna tornare a una settimana fa. E al girone di intrighi e tradimenti di cui è avvelenato il Paese.
Ppk è stato eletto nel luglio 2016, distanziando di soli 40 mila voti Keiko Fujimori, figlia di Alberto. Economista, banchiere e faccendiere, più volte ministro, il 79enne liberal-conservatore Ppk ha ottenuto il mandato grazie ai voti della sinistra e in nome dell’anti-fujimorismo. Ma la maggioranza del Congresso è nelle mani dei suoi avversari, che fin dall’inizio gli hanno fatto una guerra senza quartiere.
Incappato nelle inchieste sullo scandalo Odebrecht (che già hanno portato in carcere l’ultimo presidente Ollanta Humala e alla fuga Alejandro Toledo, altro ex capo dello Stato) per via di una consulenza milionaria incassata da un’impresa di sua proprietà mentre era ministro, Ppk si è visto minacciato di impeachment davanti al Congresso per «indegnità morale».
Per difendersi Ppk è andato a prendersi un po’ di voti a sinistra gridando al golpe fujimorista e un po’ a destra, dove ha strappato una decina di astensioni. Colpo riuscito: per 8 voti ha salvato la poltrona. A guidare l’astensione del drappello fujimorista è stato Kenji, che è fratello di Keiko e il congressista più votato nelle elezioni del 2016.
Kenji e Keiko non si amano. Sono tre le cose che sembrano unirli: mantenere in piedi la macchina di potere ereditata dal padre, evitare di finire sotto processo per corruzione e lavaggio di denaro sporco (su cui sono chiamati a rispondere dalle ultime inchieste della magistratura) e liberare il padre. Tuttavia non concordano sulle strategie da usare. Keiko, che un po’ teme il patriarca attivissimo dal carcere (le immagini della sua cella girate ieri sui media, mostravano il famoso telefono da cui avrebbe chiamato personalmente i deputati per convincerli ad astenersi), avrebbe preferito sconfiggere Ppk e prendersi la presidenza. Kenji invece, che spesso ha votato in disaccordo con il partito della sorella, ha preferito trattare e ha sfruttato così l’occasione dell’impeachment.
Il giorno dopo il voto in parlamento, il vecchio Fujimori è uscito dal carcere per una presunta crisi cardiaca. Tre giorni dopo la commissione medica (dove figura anche il suo dottore personale) ha dato il nulla osta per l’indulto. E poco dopo è arrivato il provvedimento di clemenza, che lo libera anche dalle altre accuse ancora pendenti, comprese quelle che riguardano le sterilizzazioni forzate che hanno colpito migliaia di donne. Tutti elementi, secondo Avelino Guillén, il magistrato che è riuscito 12 anni fa a mandarlo in prigione, che «potrebbero essere impugnati dinnanzi al Tribunale Costituzionale e far dichiarare nullo il provvedimento».
Kucynski da parte sua ha parlato di «sforzo di riconciliazione» di fronte a «un ex-presidente che ha commesso eccessi ed errori gravi». Una definizione che ha rinfocolato ancor di più le polemiche. Fujimori stesso, dopo gli auguri di Natale via twitter assieme al figlio, si è fatto riprendere sul letto della clinica per ringraziare il presidente e chiedere «perdono a quei peruviani che ho ingannato».
Gustavo Gorriti, fondatore di IDL-Reporteros, giornalista tra i più famosi del Perù, sequestrato per le sue inchieste durante la dittatura (e di quel sequestro Fujimori è stato riconosciuto colpevole come mandante) commenta amaramente: «Nei giochi perversi della Storia cui siamo abituati con tanta frequenza nel nostro Paese, questo è uno dei più tossici e sinistri».
@fabiobozzato
Dietro l’indulto ad Alberto Fujimori, l’ex autocrate in carcere per violazione dei diritti umani, le macchinazioni della famiglia che ancora domina la scena politica del Paese. E che ha salvato il presidente Kuczynski dall’impeachment. Ma le vittime della dittatura non ci stanno