L’efferato attacco terroristico compiuto il 16 dicembre presso la scuola militare di Peshawar ha provocato oltre 140 vittime, per la stragrande maggioranza bambini, e sollevato numerosi interrogativi sulle ragioni e le conseguenze di una simile strage.

L’attentato è stato immediatamente rivendicato dal “Tehrik-i-Taliban Pakistan” (TTP), gruppo terroristico nato nel 2007, e da allora responsabile di numerosissimi attacchi, che hanno provocato la morte di decine di migliaia di persone, soprattutto civili.
Secondo quanto dichiarato dal portavoce del TTP, Muhammad Khurasani, l’attacco sarebbe stato compiuto in risposta alla campagna militare condotta dalle forze di sicurezza pakistane nelle zone al confine con l’Afghanistan, rifugio di numerosi gruppi terroristici. Dalla metà di giugno, data di inizio della cosiddetta operazione “Zarb-i-Azb”, oltre 1.200 presunti terroristi sarebbero stati eliminati. Un duro colpo per le formazioni che per anni hanno operato quasi impunemente in questa regione, approfittando della debole volontà delle autorità politiche pakistane e di un favorevole contesto operativo. Tuttavia, il fallimento dei negoziati tentati dal governo all’inizio di quest’anno e il cambio ai vertici delle forze armate pakistane, con il Generale Raheel Sharif subentrato al Gen. Ahfaq Parvez Kayani, hanno reso possibile l’adozione di una nuova strategia di contrasto al terrorismo, di cui l’operazione “Zarb-i-Azb” rappresenta il più evidente segnale.
Per anni, gli Stati Uniti avevano esercitato pressioni sulle autorità pakistane, affinché intervenissero militarmente nel Nord Waziristan, ma queste si erano sempre mostrate estremamente restie a farlo, anche per il timore di scatenare la dura reazione dei gruppi terroristici stabiliti in quell’area. Paure superate, per l’appunto, lo scorso mese di giugno, dopo che l’ennesimo attentato, questa volta contro l’aeroporto internazionale di Karachi, accresceva il senso di insicurezza della popolazione e la diffidenza dei potenziali investitori stranieri, allontanando ogni ipotesi di ripresa economica.
Un ruolo importante nel convincere le autorità di Islamabad a intervenire militarmente lo avrebbe svolto anche la Cina, preoccupata dal crescente afflusso di militanti uiguri nelle zone di frontiera afghano-pakistane. È, tuttavia, da sottolineare come già da alcuni anni stesse crescendo la consapevolezza, all’interno delle forze armate pakistane, della necessità di contrastare con maggiore decisione tali formazioni. Nel 2013, per la prima volta in undici anni, la nuova dottrina militare pakistana individuava nella presenza di questi gruppi sul territorio nazionale una minaccia maggiore per il Paese rispetto a quella rappresentata dall’India. Una svolta di non poco conto, se si considera la storica rivalità esistente tra i due Paesi e il ruolo che l’India ha giocato nel plasmare l’identità nazionale pakistana e nel favorire l’ascesa dei militari al potere.
La decisione di lanciare l’operazione “Zarb-i-Azb” derivava anche da considerazioni di altra natura. In primo luogo, la volontà delle forze armate di approfittare delle fratture sempre più evidenti all’interno del TTP. La nomina del Mullah Fazlullah a capo del gruppo, nel novembre 2013, aveva alimentato forti tensioni interne, scontentando, in particolare, la potente tribù dei Mehsud, che ha sempre costituito il nucleo duro del TTP e, per questo motivo, ne ha sempre rivendicato la leadership. Era già allora emerso il timore, poi rivelatosi fondato, che Fazlullah, primo leader non-Mehsud, non sarebbe riuscito a tenere insieme il gruppo, poiché privo del necessario sostegno della base.
L’intervento militare, dunque, ha avuto il merito di accelerare spinte centrifughe già in atto, che sono sfociate, in questi ultimi mesi, nella frammentazione del TTP in numerose fazioni distinte. Ciò ha favorito una significativa diminuzione dell’attività terroristica nel Paese: dall’inizio di luglio al 14 dicembre, sono state 646 le vittime civili di attacchi terroristici, oltre il 40% in meno rispetto a quelle registrate nello stesso periodo del 2013 (1.139, dati del South Asia Terrorism Portal).
L’attentato di Peshawar – il più grave, in termini di vittime, dal 2007 – è, dunque, in forte controtendenza rispetto all’andamento di questi ultimi mesi. Esso, tuttavia, non indica necessariamente un rafforzamento delle capacità operative del TTP. Non si tratta, infatti, di un attacco contro un obiettivo fortemente protetto, come quello realizzato all’inizio di giugno presso l’aeroporto internazionale di Karachi o come precedenti attentati contro installazioni militari. La decisione di attaccare una scuola rappresenta, invece, il segnale della disperata necessità del TTP di ottenere visibilità. Una scelta che, tuttavia, potrebbe rivelarsi estremamente controproducente.
La strage di Peshawar ha ricevuto una condanna unanime dal mondo politico e religioso pakistano, mai mostratosi così compatto all’indomani di altri avvenimenti di questo tipo. Essa è stata condannata persino dal portavoce dei Talebani afghani, Zabihullah Mujahid, il quale ha definito l’attacco del TTP contrario ai principi dell’Islam. Il capo delle forze armate ha espresso la volontà di intensificare le operazioni di contrasto al terrorismo, sottolineando come l’attentato abbia ulteriormente rafforzato la determinazione dei militari, i quali dovranno ora essere abili a sfruttare il sostegno della popolazione nei confronti di un intervento armato. Tuttavia, un’operazione di contrasto al terrorismo realmente efficace non potrà prescindere da un’attiva cooperazione con le autorità afghane.
Ne è pienamente consapevole il Generale Sharif, il quale si è recato a Kabul, subito dopo aver partecipato ai funerali delle vittime, accompagnato dal capo dell’agenzia di intelligence (ISI), Rizwan Akhtar. Durante la visita ha incontrato i vertici militari afghani e quelli della missione ISAF, al fine di elaborare una strategia anti-terrorismo congiunta. In questi anni, infatti, le tensioni esistenti tra Pakistan e Afghanistan sono state abilmente sfruttate dai gruppi terroristici attivi in questa regione, i quali hanno potuto avvalersi del supporto delle agenzie di intelligence dei due Paesi, troppo impegnate a colpirsi a vicenda, per accorgersi delle gravi conseguenze di questo scontro. Durante la missione a Kabul, il Generale Sharif ha nuovamente chiesto alle autorità afghane la consegna del leader del leader del TTP, il Mullah Fazlullah, il quale si troverebbe già da alcuni anni nell’est dell’Afghanistan (opererebbe tra le province del Kunar e del Nuristan). Come rivelato da alcune intercettazioni, anche l’attentato di Peshawar sarebbe stato pianificato e diretto dal territorio afghano.
Da quando è giunto al potere, il presidente afghano Ashraf Ghani ha tentato di imprimere una svolta alle relazioni con il Pakistan, volontà ribadita anche in occasione della sua recente visita a Islamabad. Le prossime settimane saranno forse decisive nel determinare l’evoluzione dei rapporti bilaterali: un’azione troppo debole da parte delle forze di sicurezza afghane potrebbe spingere, infatti, i militari pakistani a intensificare le pressioni alla frontiera, con il rischio di sconfinamenti e di scontri. In alternativa, gli avvenimenti di Peshawar potrebbero segnare una svolta positiva per l’intera regione, rafforzando la consapevolezza dell’esistenza di un grave pericolo, comune a tutte e due le parti.
La strage del 16 dicembre, tuttavia, non dovrebbe essere imputata solamente a limiti nella cooperazione tra Pakistan e Kabul. Gran parte della responsabilità morale dell’attentato è, infatti, da attribuire esclusivamente alle autorità pakistane. Non tanto per l’incapacità di prevenire l’attentato o di gestire al meglio le operazioni successive all’attacco (un primo intervento congiunto delle forze speciali dell’esercito e dell’unità di élite della polizia è stato annullato, a causa della confusione creata dai diversi colori delle rispettive uniformi), quanto per l’ostinazione a distinguere tra terroristi “buoni” e “cattivi”, utilizzando i primi come veri e propri moltiplicatori di influenza in teatri come l’India e lo stesso Afghanistan. Tale distinzione si è rivelata, negli anni, del tutto insensata, oltre che dannosa, ed è stata più volte smentita dai fatti: vari gruppi sostenuti dall’intelligence pakistana, infatti, si sono poi rivoltati contro lo Stato. Ciò, inoltre, ha fortemente indebolito la capacità di elaborare una efficace narrativa a supporto delle operazioni militari intraprese contro alcune di queste formazioni.
Solo una condanna netta e univoca di ogni forma di estremismo religioso consentirebbe di porre le basi per un’azione di contrasto al terrorismo realmente efficace. Un passo che le autorità pakistane non sembrano ancora pronte a compiere, come evidenziato dal trattamento riservato ad Hafiz Said (mente dell’attentato di Mumbai del 2008, che provocò 166 vittime), e agli altri militanti jihadisti ritenuti funzionali alla causa pakistana. Obiettivi nazionali che vanno contro gli interessi della stessa nazione, se questa viene intesa nel suo significato più nobile e non come mera proiezione della volontà e degli interessi della classe al potere.
@raskolnivov86
L’efferato attacco terroristico compiuto il 16 dicembre presso la scuola militare di Peshawar ha provocato oltre 140 vittime, per la stragrande maggioranza bambini, e sollevato numerosi interrogativi sulle ragioni e le conseguenze di una simile strage.