La Cina non impone modelli all’Occidente, tutt’altro. Aprendosi all’esterno, ma mantenendo carattere e tradizione, punta alla propria trasformazione
Se la seconda potenza economica al mondo vede il suo Pil crescere del 6,6% nel 2018, deve preoccuparsi? Aggiungervi ogni anno “un’altra Turchia” o “un’altra Australia” è motivo di rammarico? Viste da Bruxelles, se non da Roma, le domande appaiono al limite della banalità. Chi combatte per aumenti del Pil da prefisso telefonico e tenta di evitare la recessione – quando il trascorrere del tempo ci rende più poveri – può soltanto invidiare il Dragone. Aumentare la propria ricchezza negli ultimi e nei prossimi anni del 6 o 7% − applicati su un altissimo valore assoluto – è inimmaginabile per qualsiasi Paese industrializzato.
Eppure, il suo rallentamento desta preoccupazione, sia a Pechino che nelle cancellerie occidentali. Quando il mondo è colpito da previsioni molto incerte, la frenata aggiunge pessimismo. La pur controversa ipotesi del decoupling, la funzione anticiclica della Cina – che comunque ha prodotto risultati di equilibrio sia nella crisi asiatica che in quella del 2008 – potrebbe non verificarsi se la sua economia rallenta. Sarebbe dunque irresponsabile augurarsi una crisi congiunta, a meno che non la si auspichi per fini non contabili ma strategici. Se la domanda globale flette, chi comprerà le materie prime dall’Africa, i computer dalla Cina, le automobili dalla Germania? Oppure, gli Stati Uniti, riprenderanno le produzioni dismesse nel 20° secolo?
In effetti, un rallentamento della Cina può essere visto come un segnale di debolezza, ma anche di maturità. Certamente sono lontani gli aumenti del Pil a due cifre, ma un Paese non può crescere all’infinito con quei tassi. È probabile si tratti di una riduzione fisiologica che stabilizzi l’intera società, lasciandole digerire gli epocali cambiamenti che ha registrato. L’eccezione statistica non è questa crescita, ma quella quarantennale a ritmi mai registrati dalla storia economica.
A una visione più analitica non è soltanto l’economia a destare l’interesse degli studiosi, quanto il peso relativo che la Cina occupa sull’intera società globale. Essa stabilisce record, scandisce l’agenda internazionale, rende necessario ogni suo intervento nelle aree di crisi. Eppure è ancora poco conosciuta, la sua immagine è affollata da stereotipi. Le sue dimensioni dovrebbero assicurarle una maggiore visibilità, che invece ancora latita. Di un Paese che registra il 20% della popolazione mondiale si aspetterebbe un’analoga notorietà. Teoricamente ⅕ dei libri letti, dei film visti, dei concerti ascoltati, dei campioni dello sport dovrebbe essere cinese, almeno tra quelli di valore internazionale. Invece, la percentuale è molto più bassa. A stento si ricordano gli scrittori, i registi, i marchi più famosi.
L’ultimo rapporto della britannica Portland – una prestigiosa società di ricerca e di comunicazione – pone la Cina al 27° posto nella classifica dei paesi con maggiore softpower, cioè con la capacità di ottenere risultati favorevoli al proprio paese con mezzi coercitivi non convenzionali. Joseph Nye, l’ordinatore del concetto, lo declina in tre principali versanti: i valori politici, la politica estera, la cultura. Soltanto quest’ultima è un punto di forza della Cina. I valori più strettamente politici o ideologici vengono visti con preoccupazione dall’opinione pubblica globale. Se ne denunciano l’intimidazione, il nazionalismo, il mancato rispetto dei diritti umani, la durezza nel dialogo. Nella classifica la Cina è preceduta dalle democrazie occidentali (il Regno Unito è al 1° posto, gli Stati Uniti al 4°, l’Italia al 12°). Se questo e altri rapporti che lo hanno preceduto confermano le stesse conclusioni, si può dedurre che alla potenza della Cina non corrisponda un analogo apprezzamento, che dunque Pechino non abbia costruito un modello sociale degno e imitabile?
Effettivamente la Cina è ammirata più che amata, rispettata perché necessaria. Anche chi del Paese riconosce i meriti innegabili e le sofferenze trascorse, certamente non ambisce a quei valori politici e sociali. Ne ammira forse gli aspetti etici, ma non li darebbe in cambio del pluralismo delle opinioni. Tuttavia, esiste un radicato pregiudizio che diventa antagonismo quando la Cina non è più sottomessa e rivendica il proprio ruolo. Il Dragone potente, che ha sconfitto il sottosviluppo ma non ha allentato la morsa sulla società sparge inquietudine perché cresce senza le libertà individuali che si credevano propedeutiche al decollo economico. Viene criticato perché non vuole cedere a modelli diversi. Li rifiuta in quanto non appartengono alla propria tradizione, li trova inadeguati al percorso che ha tracciato, rischiosi per la stabilità politica. La democrazia parlamentare è un modello universale? La Cina del passato non ha mai stimolato questa domanda. Finché annaspava nella miseria e nell’arretratezza, nessuno le domandava un’apertura democratica.
Probabilmente la domanda più corretta è un’altra: la Cina ha l’intenzione di porsi come modello? Ambisce veramente a conquistare gli altri con i suoi stili, i valori, i risultati? È una potenza imperiale o semplicemente regionale o addirittura sino-centrica? Porsi questi interrogativi aiuta a comprendere come mai non esista un John Wayne cinese che incarni l’epopea dei film western, indossi la mitologia dei blue-jeans e sconfini libero nelle praterie sterminate.
Il pragmatismo – non la narrazione, tanto meno la leggenda – è stato il cardine del successo cinese. Non erano contemplate pericolose derive individualiste, produzioni artistiche globali, idoli giovanili da seguire. La sconfitta del sottosviluppo richiedeva una ricetta spietata, con gli ingredienti tipici: disciplina, stabilità, bassi salari, compressione dei consumi. Sarebbero risultati indigesti per qualsiasi Paese industrializzato, ma la Cina, inghiottendoli, ha vinto la propria scommessa. La stessa definizione che si dà – “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” − esplica l’irripetibilità del proprio esperimento sociale. L’acrobazia teorica che concilia una direzione comunista con l’iniziativa individuale è sostenuta “dalle caratteristiche cinesi”, dalla straordinaria omogeneità etnica e culturale del paese. Unita all’antica obbedienza, alla tradizione stalinista del PCC, all’orgoglio patriottico, essa ha creato un modello unico, inedito, redditizio, certamente non trasferibile. L’accusa dunque di aver mancato un disegno universale cade: un Paese che costruisce muraglie per proteggersi ambisce soltanto a difendere il proprio territorio. La politica estera è strumentale a quella interna, la crescita serve a mostrare i muscoli, la Cina del passato – tanto esotica quanto debole – è consegnata alla storia. Nessuna spiegazione deve essere fornita agli stranieri. Oderint dum metuant; l’ha detto Lucio Accio e non Confucio, ma va bene ugualmente: mi odino purché mi temano.
Eppure questa forza può trasformarsi in debolezza, per la disabitudine a gestire situazioni complesse, a dimostrare duttilità senza confonderla con cedimento. Non è con gli stranieri la sfida più impellente della Cina. La dirigenza ha il compito di guidare senza scosse un altro cambiamento, verso una società più prospera, esigente, aperta alle influenze esterne. Richiede di uscire da una spirale di lavoro e sacrifici, di poter comprare una casa senza indebitarsi per il resto della vita, di contare su una burocrazia efficiente e non corrotta, di veder ripristinato il welfare, di poter avere una famiglia numerosa. Sarebbe ingenuo classificare questa richieste come un’aspirazione alla democrazia occidentale. Però la domanda per una società più equa e aperta rimane forte. Può essere canalizzata, repressa o surrogata dando fiato al nazionalismo. Le immense riserve del paese possono essere impiegate nel tiro alla fune con gli Stati Uniti o rivolte verso le esigenze interne (casa, scuola, salute). Il dinamismo delle idee può essere assecondato o invece soltanto emarginato, le minoranze imprigionate, tollerate o valorizzate.
Xi Jinping si trova di fronte un compito storico. Deve calibrare una riforma incisiva ma non dirompente. Affronta una situazione paradossale: il passato gli dà la forza dei numeri e della demografia, ma lo appesantisce il retaggio di un modello quantitativo, rigido, ingessato, valido ma probabilmente non più efficace. Dovrà sciogliere presto il nodo di una società piramidale che affida la sua base ad un vertice solitario e onnipotente. Forse allora il modello cinese guadagnerà più consensi e susciterà minor timori.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
La Cina non impone modelli all’Occidente, tutt’altro. Aprendosi all’esterno, ma mantenendo carattere e tradizione, punta alla propria trasformazione