La propaganda ai tempi di Photoshop.
In Cina, quest’anno, è stato usato per far apparire molto più numerosa la folla intervenuta a una manifestazione a favore della patria. In Corea del Nord ha moltiplicato i mezzi da sbarco in un’esercitazione militare del 2013. Prima ancora, in Iran, è servito per far apparire riuscito un lancio di missili in cui invece uno dei quattro ordigni si era inceppato.
Parliamo di PhotoShop, il più famoso software di manipolazione delle immagini, lanciato nel 1990, che in pochi anni ha reso alla portata di tutti un’arte per pochi esperti. E che oggi, sempre più spesso, è lo strumento più subdolo ed efficace per condurre operazioni di propaganda politica: addirittura per instillare nel pubblico il ricordo di eventi mai avvenuti.
Determinate immagini, se opportunamente alterate e proposte nel contesto appropriato, superano il filtro della ragione, scrive Cynthia Baron nel suo libro Photoshop Forensics: Sleuths, Truths and Fauxtography, che aggiunge: “I tentativi più riusciti di scatenare guerre dipendono, a un certo punto, dalla capacità di galvanizzare il popolo toccandone le emozioni”. Questo però è un fenomeno che l’avvento dell’era digitale ha solo accentuato.
“Probabilmente sono passati meno di dieci minuti, tra quando fu inventata la fotografia e quando si capì che poteva essere usata per mentire”, ha detto il documentarista Errol Morris in un’intervista raccolta dal magazine Motherboard. E infatti creare fotomontaggi a fini politici è una pratica che risale a molto prima di Photoshop.
Gli esempi più comuni di immagini falsificate verrebbero dalla Russia comunista, secondo un documento dell’Università del Minnesota, che riporta alcune foto di Stalin da cui l’idealista Leon Trotzkij e il capo della polizia segreta Nikolaj Yezhov sono stati cancellati dopo essere diventati scomodi per il regime. E se è vero che in tempi moderni Photoshop ha reso il fotomontaggio alla portata di chiunque abbia un pc: “I fotografi hanno sempre usato ogni mezzo tecnico disponibile per creare le immagini che volevano”, ha sottolineato Mia Fineman del Metropolitan Museum in occasione della mostra Faking It: Manipulated Photography Before Photoshop, di cui era curatrice.
Anzi, “l’onnipresenza del fotoritocco ha reso chi guarda più accorto e diffidente”, ha aggiunto la Fineman, “la gente osserva le immagini con più attenzione che mai e […] adora smascherare le manipolazioni”. Un atteggiamento non così diffuso, va detto, visto che sui social network diventano spesso virali campagne di disinformazione basate su illustrazioni create ad arte.
Gli scopi? I più vari: dalla propaganda politica alla diffusione di teorie complottiste sui temi dell’energia, dei farmaci e dell’ambiente (comica la foto – finta – del calamaro gigante, grande come un campo da calcio, che dimostrerebbe il gigantismo animale indotto dalle radiazioni di Fukushima, Godzilla docet).
Talvolta le manipolazioni non sono evidentissime. Tant’è vero che sono molte le foto pubblicate da eminenti quotidiani e poi ritirate dalle stesse agenzie stampa che le avevano diffuse. È il caso, per esempio, del lancio dei missili iraniani: è apparso sul Los Angeles Times, sul Financial Times, sul Chicago Tribune e sui siti del New York Times e della BBC, prima di venire rimosso, il giorno dopo, dal sito dell’Agence France- Presse. Persino la foto vincitrice della categoria Luoghi, del prestigioso National Geographic Photo Contest 2012 è stata squalificata perché trovata alterata – dopo la vittoria.
Esistono software che aiutano gli esperti a smascherare le contraffazioni: “Utilizzano algoritmi per analizzare le alterazioni nei file jpeg (cioè le foto, n.d.r.)”, ha spiegato a East Eric Baradat dell’AFP.
Aggiunge: “Non sono però in grado di rimpiazzare l’occhio e l’esperienza degli esseri umani: ci aiutano solo a esaminare più a fondo le immagini sospette, per esempio quelle di certe fonti governative”. Cynthia Baron spiega quali elementi dovrebbero metterci in allarme. Primo, le fonti: se sono anonime o irrintracciabili c’è da dubitare. Poi bisogna esaminare la qualità: le mistificazioni partono di solito da immagini in bassa risoluzione scovate su Internet, quindi è difficile che siano in formato grande (salvate nel pc occupano poche decine di kB, invece dei MB degli scatti originali).
Altro fattore da considerare è il tornaconto di chi pubblica il documento: se la foto mostrata è “troppo” favorevole alle tesi di chi la diffonde può essere stata creata a bella posta.
Infine non bisogna abbassare la guardia nell’esaminare la verosimiglianza delle immagini: “È il tranello più pericoloso, perché è facile credere a ciò che si conforma con le nostre opinioni pregresse”, dice la Baron. Anche se magari è falso. Basta alterare qualche dettaglio, in apparenza innocente, per fare disinformazione. “Ciò non fa di ogni ritocco un’opera di propaganda”, precisa Baron. Ma di certo rende sempre più difficile distinguere i veri contorni della realtà.
La propaganda ai tempi di Photoshop.