Dopo un pò che vivete in Irlanda, noterete il rapporto ambivalente con il Regno Unito: la costituzione dei ribelli indipendentisti del 1916 incorniciata, nei pub, a fianco dei ritratti delle squadre di calcio inglesi e la vicinanza alle istanze del mondo decolonizzato che non esclude la duratura intesa con Londra nelle politiche europee. L’interesse per il referendum del 23 giugno è alto in qualsiasi paese europeo, ma nel caso dell’Irlanda è davvero difficile contare tutti i cambiamenti che scaturirebbero da una ridefinizione del ruolo del Regno Unito nel quadro della UE.
Il governo irlandese ripete che rispetterà l’autonomia dell’elettorato britannico, ma afferma con crescente ansia il punto di vista di Dublino: che per il Regno Unito e il resto della comunità sono incalcolabili i vantaggi del proseguimento dell’esperienza europea. Ancora pochi giorni fa, il 16 giugno, il Ministro alle Finanze della Repubblica d’Irlanda, Michael Noonan, ha sottolineato che, anche in caso di Brexit, l’Irlanda sosterrà la permanenza del vicino nel mercato comune (invece il suo collega tedesco Wolfgand Schäuble aveva dichiarato che, in caso di un voto per il ‘Leave’, il Regno Unito non potrebbe più beneficiare dell’accesso al mercato unico europeo, a differenza di Norvegia e Svizzera che della UE non hanno mai fatto parte).
La volubilità della sterlina viene monitorata attentamente, perchè nella repubblica Londra è il primo mercato per l’esportazione di servizi, il secondo di beni. Intanto i dazi tornano nel vocabolario dei paesi europei da un passato che sembrava remoto, se si riparte da zero ci vorrà realisticamente almeno qualche anno in negoziati commerciali e trattati, ma il pensiero più cupo è un altro: c’è una frontiera, cui in non pensava quasi più nessuno perchè gli Accordi del Venerdì Santo (aprile 1998) misero in moto una cooperazione tra Repubblica d’Irlanda e Regno Unito basata in larga parte sul fondamento dell’Unione Europea come luogo condiviso di confronto, diverso dallo spazio storicamente conteso nella provincia dell’Ulster. Dáithí Ó Ceallaigh, ex ambasciatore irlandese a Londra, ha affermato che il ritorno di confini ‘rigidi’ all’interno dell’Irlanda danneggerebbe la collaborazione tra le due parti dell’isola. Il nervosismo è cresciuto dopo che un sondaggio elaborato da ‘Ipsos Mori’ per ‘The Evening Standard’ ha indicato il 16 giugno uno scarto (53 a 47 per cento) a favore del ‘Leave’, anche se escludendo gli indecisi, che molti analisti considerano propendere per il mantenimento dell’appartenenza britannica alla UE.
Probabilmente l’Irlanda del Nord (facente parte di un Regno Unito nel cui dibattito interno sull’Europa il controllo dei confini ha avuto un ruolo dirimente) vedrebbe mettere in discussione i contributi economici che riceve dalla UE (tre miliardi di euro sono previsti già fino al 2020 solo nel quadro dei programmi europei ‘Peace’ e ‘Interreg’) e dovrebbe ristrutturare le istituzioni estese a tutta l’isola, sviluppate nella cornice degli accordi di pace. Gli ex primi ministri britannici John Major (Conservatori) e Tony Blair (Laburisti) hanno dato voce al timore che sviluppi di questo genere e reintroduzioni di barriere al commercio ostacolino l’avvicinamento delle diverse comunità dell’Irlanda del Nord, tra problemi sociali legati alla recente crisi economica e forze dissidenti. La maggioranza delle forze politiche nell’Ulster (inclusi i nazionalisti repubblicani dello Sinn Féin) sostiene la necessità di rimanere, il Democratic Unionist Party (lealisti protestanti) è schierato con il ‘Leave’ ma è diffusa l’opinione che le preoccupazioni per le conseguenze per il nord di un uscita dalla UE siano presenti anche in questa forza politica. Su Twitter, si è fatto sentire a favore del ‘Remain’ Rory Best, giocatore di rugby e influente tra gli agricoltori: ‘Thursday 23rd June is an important date for farmers and the agrifood sector – ha scritto dalla contea di Armagh nell’Irlanda del Nord lo sportivo – support them by voting to stay in EU!’. Il settore agricolo nella provincia autonoma dipende dagli aiuti della PAC (la politica agricola europea) per l’ottantasette per cento del reddito degli addetti, anche se un taglio di più del dieci per cento queste risorse, da 300 a 266 milioni di sterline, ha creato qualche malumore lo scorso anno.
L’esecutivo guidato dai liberali del Fine Gael, con l’appoggio di candidati indipendenti e l’astensione degli avversari del Fianna Fáil, sta raccogliendo al dipartimento del Taoiseach (Premier) funzionari dei principali ministeri perchè la repubblica non si trovi impreparata, qualsiasi risultato si verifichi. L’azione istituzionale era stata avviata sempre da un governo del Fine Gael nella precedente legislatura (allora in coalizione con il Labour) perchè Dublino teme la perdita del principale alleato su cui ha sempre fatto affidamento fin dal 1973, anno di ingresso di entrambi i paesi nella UE (quando l’Unione Europea accolse anche la Danimarca, oggi a sua volta uno degli stati più preoccupati dal referendum britannico, anche se meno rispetto all’Irlanda).
Un altro gruppo tecnico ha raggruppato esponenti di categorie produttive, sindacati, istituti di ricerca, sempre al fine di elaborare risposte ad uno scenario determinato da una eventuale Brexit: Il paese lavora assieme al Regno Unito in ambiti infrastrutturali, energia inclusa.
Occorre considerare che, in parte, gli irlandesi saranno direttamente coinvolti il 23 giugno, perciò il premier Enda Kenny cerca tuttora di mobilitare 600.000 nati nella repubblica che oggi vivono nel Regno Unito, poi uno spicchio dell’elettorato che si sente vicino a Dublino è rappresentato da cittadini e residenti britannici presenti in Irlanda che possono votare al referendum e infine c’è un grande fattore nel voto influenzato dalle conseguenze sull’isola: il milione di votanti nordirlandesi. La preoccupazione per una eventuale uscita del vicino dall’Europa è condivisa dalla popolazione: a una dozzina di giorni dalla data del referendum, i sondaggi d’opinione registravano nella repubblica un settanta per cento che preferisce veder restare il Regno Unito partner nella UE (solo un nove per cento risultava dell’opinione contraria e gli altri ‘senza opinione’) e una maggioranza del cinquantaquattro per cento convinta che alla fine il ‘Leave’ non passerà (solo il venti per cento pensa il contrario), la sensazione in Irlanda è netta anche sugli effetti in Europa di una eventuale Brexit, negativi per oltre il settanta per cento degli irlandesi, il sessanta per cento dei quali infine non vorrebbe un referendum simile a Dublino (solo il tredici per cento lo auspica).
Sul tavolo naturalmente ci sono anche gli effetti che agirebbero dall’Irlanda sul vicino, come ha ricordato pubblicamente il capo esecutivo di Ryanair, Michael O’ Leary, chiarendo che la compagnia di volo, in caso di Brexit, non porterebbe più nel Regno Unito la metà di circa 1000 posti di lavoro che prevede di creare a partire da quest’anno, scegliendo invece Irlanda e Germania, perchè il gruppo considera importante sviluppare le proprie iniziative all’interno della UE. O’ Leary ha aggiunto che valutazioni simili peseranno sulle scelte delle altre grandi compagnie internazionali (che vedono le città appartenenti al mercato europeo come strategiche per le proprie attività) ed ha concluso che – pur condividendo punti di vista critici sul funzionamento della UE – i benefici del rimanere sono decisivi per la crescita socioeconomica dei paesi componenti e hanno a esempio permesso di arrivare a tariffe di viaggio alla portata di tutti i cittadini UE e alle opportunità di valorizzare ogni professionalità nei diversi paesi del continente. Tra gli investimenti esteri nel Regno Unito, la Repubblica d’Irlanda è ben presente: Cement Roadstone Holdings, Jurys Inns, Glambia, Kerry Foods, sono solo alcuni dei marchi attivi oltre il mar d’Irlanda.
Se Londra sterzasse verso la Brexit, la sfida sarebbe quella riorganizzare i rapporti commerciali (ma anche il welfare degli anziani residenti nell’uno e nell’altro paese e il lavoro dei giovani da una parte e dall’altra) assieme al Regno Unito, mentre questo si troverebbe a negoziare i suoi rapporti con le istituzioni della UE e del resto del mondo. Il Ministro degli Esteri irlandesi, Charles Flanagan, ha ricordato che ogni settimana un miliardo e duecento milioni di euro circolano in beni e servizi tra i due stati. Un cambiamento così profondo porterebbe situazioni complesse da gestire in Europa, principalmente nella Repubblica. Il 23 giugno, quando i cittadini britannici tracceranno la direzione che prenderà il loro paese, che ha sempre dato tanto a questa nostra Europa, qui in Irlanda l’evento calamiterà l’attenzione pubblica come in nessun altra parte dell’unione.
Dopo un pò che vivete in Irlanda, noterete il rapporto ambivalente con il Regno Unito: la costituzione dei ribelli indipendentisti del 1916 incorniciata, nei pub, a fianco dei ritratti delle squadre di calcio inglesi e la vicinanza alle istanze del mondo decolonizzato che non esclude la duratura intesa con Londra nelle politiche europee. L’interesse per il referendum del 23 giugno è alto in qualsiasi paese europeo, ma nel caso dell’Irlanda è davvero difficile contare tutti i cambiamenti che scaturirebbero da una ridefinizione del ruolo del Regno Unito nel quadro della UE.
Il governo irlandese ripete che rispetterà l’autonomia dell’elettorato britannico, ma afferma con crescente ansia il punto di vista di Dublino: che per il Regno Unito e il resto della comunità sono incalcolabili i vantaggi del proseguimento dell’esperienza europea. Ancora pochi giorni fa, il 16 giugno, il Ministro alle Finanze della Repubblica d’Irlanda, Michael Noonan, ha sottolineato che, anche in caso di Brexit, l’Irlanda sosterrà la permanenza del vicino nel mercato comune (invece il suo collega tedesco Wolfgand Schäuble aveva dichiarato che, in caso di un voto per il ‘Leave’, il Regno Unito non potrebbe più beneficiare dell’accesso al mercato unico europeo, a differenza di Norvegia e Svizzera che della UE non hanno mai fatto parte).