L’Opec+ ha rifiutato di accelerare la produzione opponendosi alle pressioni dell’amministrazione Biden, che teme ripercussioni su trasporti e consumi. Gli Stati Uniti si sono detti pronti a utilizzare “tutti gli strumenti” necessari
Venerdì i prezzi dei due principali contratti di riferimento del petrolio sono tornati a salire: il Brent, basato sul mercato europeo, è arrivato a 80,9 dollari al barile; il West Texas Intermediate americano, invece, a 79,4. L’aumento di ieri – coerente con il quadro generale: il greggio è ai massimi da sette anni – si deve alla decisione dell’Opec+, l’organizzazione che riunisce alcuni dei più grandi esportatori, di non rivedere al rialzo la produzione e mantenere piuttosto l’incremento dell’offerta per il mese di dicembre a 400mila barili al giorno, come stabilito tempo fa.
L’Opec+, dunque, si è nuovamente opposto alle pressioni dell’amministrazione di Joe Biden, che ha chiesto al gruppo di rilasciare maggiori quantità di petrolio sui mercati. I prezzi del carburante negli Stati Uniti sono infatti in aumento, la benzina è vicina alla soglia psicologica dei 4 dollari al gallone, e la Casa Bianca teme ripercussioni sui trasporti e sui consumi, in un contesto problematico di inflazione alta.
Cosa faranno gli Stati Uniti
Per aumentare la risonanza – e magari l’efficacia – del proprio messaggio, Washington ha trasposto le difficoltà nazionali su scala globale, accusando l’Opec+ di ostacolare la ripresa economica mondiale mantenendo alti i prezzi del greggio, materia prima ancora fondamentale per tutta una serie di attività e processi industriali. Gli Stati Uniti si sono detti pronti a utilizzare “tutti gli strumenti” necessari per mitigare i prezzi del carburante in patria, anche attingendo alla riserva strategica di petrolio, come aveva anticipato il dipartimento dell’Energia al Financial Times già un mese fa.
Al di là dell’effetto immediato, ossia aumentare la disponibilità di barili in America e farne scendere il costo, il ricorso alla riserva potrebbe essere una mossa negoziale con i membri dell’Opec+. Benché non siano al riparo dagli andamenti dei mercati, gli Stati Uniti sono i più grossi produttori di petrolio al mondo. E sanno bene che i Paesi dell’Opec – innanzitutto l’Arabia Saudita, leader del gruppo – hanno bisogno di prezzi al barile alti per finanziare i bilanci statali e la transizione verso le energie a basse emissioni di carbonio. Se dalla riserva strategica dovessero uscire grandi quantità di greggio, allora, il suo valore internazionale si raffredderebbe. Ma è un bluff, non succederà davvero: il prelievo dalle scorte sarà modesto e comunque di breve termine, altrimenti le società petrolifere americane ne soffrirebbero.
Più che a motivazioni geopolitiche, la cautela dell’Opec+ ad aumentare l’offerta si deve soprattutto a questioni economiche (cavalcare la fase di prezzi alti per garantirsi entrate corpose), prospettiche (gli obiettivi climatici faranno ridurre l’utilizzo del petrolio, scoraggiando nuovi investimenti) e organizzative (mettere di nuovo d’accordo tutti i membri è difficile). Tuttavia, ci sono delle frizioni tra gli Stati Uniti e le due nazioni alla guida dell’organizzazione, l’Arabia Saudita e la Russia.
L’amministrazione Biden ricerca un coordinamento internazionale per influenzare le decisioni dell’Opec+, e ha sfruttato il vertice del G20 della settimana scorsa per compattare gli alleati (i consumatori di petrolio, più in generale) e pressare tutti insieme l’organizzazione arabo-russa affinché apra di più i rubinetti del greggio. Ma sta anche trattando con le compagnie petrolifere domestiche per gestire l’aumento della benzina ai distributori, nonostante il piano energetico del presidente vada in tutt’altra direzione.
L’Opec+ ha rifiutato di accelerare la produzione opponendosi alle pressioni dell’amministrazione Biden, che teme ripercussioni su trasporti e consumi. Gli Stati Uniti si sono detti pronti a utilizzare “tutti gli strumenti” necessari