
Al mondo, dal 1945 ai giorni nostri, abbiamo contato 52 movimenti secessionisti degni di questo nome. La maggior parte non è riuscita a raggiungere il proprio obiettivo di indipendenza, a riprova di quanto sia incerta e tortuosa la strada verso la secessione.
Un movimento secessionista può utilizzare due approcci per raggiungere l’indipendenza: il primo è quello di sfidare il governo centrale. Se il governo autorizza l’indipendenza, come ha fatto la Serbia con il Montenegro nel 2006, allora il percorso verso la sovranità statale è garantito. Il secondo approccio consiste nel chiamare in causa la comunità internazionale, come nei casi di Sud Sudan e Kosovo (quest’ultimo, nel 2008, si autoproclamò indipendente dalla Serbia e fu riconosciuto da tutti, tranne la Russia, che nella guerra aveva appoggiato la Serbia): nel sistema internazionale, è la politica, ovvero l’appoggio di Stati sponsor, che prevale sul diritto.
Oggi, politicamente e giuridicamente, l’autodeterminazione trova unanime riconoscimento in presenza di precisi requisiti: in caso di popoli soggetti a dominio coloniale, oppure di popolazioni il cui territorio sia stato occupato con la forza da uno Stato straniero o nel caso di gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano sono perseguitati e chiedono di separarsi per la loro sopravvivenza. In mancanza di tali requisiti, l’autodeterminazione non trova ragioni nè giuridiche né politiche, e prevale la tutela dell’integrità territoriale degli Stati.
Aggiungiamo che, laddove i due livelli superiori (Stato nazione e Ue) siano entrambi democratici, gli indipendentismi, lungi dall’essere rappresentativi di istanze democratiche, finiscono con il diventare espressione di eredità feudali, proprie di una cultura retrograda e non necessariamente foriera di prosperità economica. I catalani sostengono che da soli, quindi staccati dalla Spagna, sarebbero più ricchi. Come spiegò nel 2004 l’allora presidente della Commissione europea, Prodi, “secessione” significa anche esclusione dall’Ue. E i costi, anche per una regione ricca come la Catalogna (19% del Pil spagnolo), si farebbero alti: il Ministero dell’Economia spagnolo ha stimato che l’eventuale secessione ridurrebbe il Pil catalano tra il 25 e il 30% . La fuoriuscita dall’Ue significherebbe anche perdita di accesso al Mercato unico, debito pubblico catalano che resterebbe in euro e mancata liquidità fornita dalla Bce.
Ma il caso catalano, che in queste settimane occupa le prime pagine dei giornali, non è un’eccezione spagnola. Oggi il vento delle correnti sovraniste e secessioniste e il boom dei partiti “regionali” ed “euroscettici” soffia dalla Scozia ai Paesi Baschi, dalle Fiandre al Veneto. Poiché l’Europa è un mosaico di culture e tradizioni, se tutte le realtà linguistiche o culturali europee decidessero di adottare la via della disgregazione dalle rispettive entità statuali, i micro-stati sarebbero più o meno 80. Il solo Regno Unito arriverebbe a 13. Ma se neanche gli Stati nazione oggi da soli sono in grado di trovare soluzioni a problemi globali, sfido qualunque micro-stato a riuscirci. Quando l’indipendentismo si riferisce alla nostalgia verso un passato feudale e campanilista, il rischio è di un arretramento su tutti i fronti, economico, culturale e democratico.
Al mondo, dal 1945 ai giorni nostri, abbiamo contato 52 movimenti secessionisti degni di questo nome. La maggior parte non è riuscita a raggiungere il proprio obiettivo di indipendenza, a riprova di quanto sia incerta e tortuosa la strada verso la secessione.