Il nuovo presidente ha fama di essere più liberal dei Castro, ma il primo decreto che ha firmato è stato un giro di vite sulla libertà di espressione. Nel mondo artistico cubano si è messa in moto una protesta senza precedenti, che sta costringendo il potere a fare marcia indietro
Ha pochi precedenti quello che si è mosso a Cuba nelle ultime settimane. Tutto ha a che fare con il decreto 349. Da quando è stato emanato, ad aprile, se n’erano accorti in pochi. Poi le discussioni tra piccoli gruppi di artisti hanno cominciato a diventare critiche pubbliche e le proteste plateali, fino ad arrivare alla detenzione – tre volte in tre giorni – di una stella dell’arte contemporanea come Tania Bruguera. Sono anche intervenute importanti istituzioni culturali internazionali, a cominciare dalla direttrice della Tate Modern.
Persino un’icona del castrismo, Silvio Rodríguez, il cantautore più famoso della Revolución, ha rotto gli indugi: «Può anche essere che il Decreto abbia buone intenzioni ma sono sicuro che sarebbe stato meglio discuterlo con gli artisti», ha scritto nel suo blog Segunda Cita. Il governo cubano sembra essere rimasto spiazzato e ha fatto mezza marcia indietro. Gli artisti cubani hanno scoperto di avere una forza che nessuno, nemmeno nelle alte sfere del potere castrista, può più eludere.
A pesare è anche il fatto che il 349 è il primo Decreto firmato da Miguel Díaz-Canel all’indomani dell’insediamento da presidente. La data è 20 aprile 2018 – il giorno dopo la proclamazione -, cui è seguita la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e l’entrata in vigore 150 giorni dopo, vale a dire a metà settembre. «Gliel’hanno messo a firmare», ha scritto amaro Rodríguez.
Díaz-Canel ama far trapelare la sua indole liberal dietro una carriera interna all’apparato e la sua elezione annunciava un’epoca di aperture, caute ma profonde: invece è subito inciampato sul terreno insidioso delle libertà. Non che finora la cultura fosse estranea alla censura, tutt’altro: sono conosciuti i divieti e le mille trappole per contenerla. Neppure le proteste sono nuove ma finora erano isolate e individuali.
Il Decreto 349 aggiorna una normativa risalente al 1997 con l’obiettivo, giurano al Ministero della cultura, di regolamentare la produzione e la vendita di opere in un mercato sempre più aperto alle iniziative private. Ma il Decreto va ben oltre: ogni creazione artistica, in qualsiasi settore, per essere esposta – o pagata – deve avere l’autorizzazione delle autorità competenti.
Si elencano diciannove casi di violazione di legge. Alcuni sono chiari: dalla pornografia alle incitazioni all’odio o al razzismo, fino ai decibel eccessivi e ai diritti d’autore. Alcuni tagliano alla radice qualunque possibilità di fare arte indipendente: è punito “chi presta servizi artistici senza essere autorizzati per esercitare lavori d’arte” (art.2.1, comma e). Altri restano aperti a qualunque interpretazione discrezionale: “chiunque infranga le disposizioni legali che regolano il normale sviluppo della nostra società” (art.3.1 comma g).
A rendere ancora più indigesta la nuova legge è l’istituzione di “supervisori-ispettori designati dal ministero della Cultura” che dovrebbero “ispezionare e conoscere gli atti da sanzionare raccolti nel Decreto” (art.8). Una sorta di polizia culturale addetta alla censura sul campo? Non più le multe o le irruzioni delle forze dell’ordine ma ispettori che verificano, multano, interrompono mostre o spettacoli.
C’è voluto tempo perché il dibattito sul Decreto venisse alla luce. Poi si è formata un’onda. El Estornudo, uno dei migliori giornali cubani – da febbraio oscurato nel Paese dalle autorità -, ha ricostruito il susseguirsi delle riunioni tra una serie di artisti, come Leandro Feal, Chino Novo, Abel González y José Manuel Mesías, raccontando come la protesta si sia ingrossata.
Non è un caso che siano gli artisti a uscire allo scoperto: il mondo culturale cubano è magmatico, cosmopolita, abituato a entrare e uscire dall’isola, post-ideologico, non si lascia imbrigliare dalla contrapposizione con o contro Cuba su cui poggia tutta la retorica tradizionale del governo e dei suoi avversari.
La contestazione dei giorni scorsi ha ben pochi precedenti. Così come la cautela del governo e il suo mezzo dietro-front. I media ufficiali o filo-governativi hanno provato a reagire – e anche i tempi di reazione la dicono lunga – come di abitudine, provando a dividere i dissidenti e mettendo all’indice chi protestava.
Jorge Ángel Hernández, sulla rivista la Jiribilla l’ha definita “una scaramuccia di guerra culturale”: il poeta e scrittore, molto noto nell’isola, ha difeso il Decreto e ha descritto i suoi critici come quelli che “proteggono, senza alcuna sottigliezza, le fonti di finanziamento straniero, injerencista, che stanno permettendo loro diversi livelli di protagonismo nello spettro pubblico internazionale”. Parole usuali ma che stavolta sono sembrati degli spari a salve.
Il suo editoriale ha provocato un tumulto nella comunità di artisti, che si sono sentiti ancora una volta messi alla berlina come agenti stranieri o arricchiti. Silvio Rodríguez, il cui intervento è calato come un macigno, ha rilanciato: «ci vorrebbe una moratoria nell’applicazione, finché non si discuta davvero e non si trovi una modifica accettabile».
Il vice-Ministro della cultura, Fernando Rojas, cui spetterà emanare il regolamento al Decreto, ha promesso in un’intervista alla AP, che gli ispettori interverranno «solo in situazioni molto chiare» e in casi di «estrema gravità», non potranno ispezionare alcuno studio privato o luogo non pubblico e dovranno riportare i casi ai loro superiori, senza prendere iniziative.
Negli stessi giorni è intervenuto il titolare del dicastero, Alpidio Alonso, facendo un altro passo avanti: «il Decreto non entrerà in vigore in alcune aree di promozione dell’arte e dei servizi culturali che in questo momento non sono previsti dalla legge», ha dichiarato. Dunque non si applicherebbe a spazi privati e non ufficiali, cioè proprio il motivo per cui sarebbe nata la legge.
Un dietro-front esplicito: se così fosse, sarebbe una vittoria per la comunità di artisti. Tuttavia, la maggior parte di loro non si fida e continua a denunciare il provvedimento in tutte le sedi.
«Tutti abbiamo fatto sì che le nostre critiche fossero ascoltate a partire dal proprio settore e questo è un atto democratico che non si era visto da anni a Cuba», ha ammesso Tania Brugera nella sua pagina Facebook. Davanti al Ministero c’era lei assieme a un folto gruppo di artisti, tra cui Luis Manuel Otero Alcántara, Amaury Pacheco, Michel Matos, Yasser Castellanos e la curatrice Yanelys Nuñez Leyva. Tutti arrestati. E rilasciati dopo qualche ora.
Alla mano dura hanno risposto altri 100 artisti, come Carlos Martiel, Coco Fusco, Maria Correa do Lago, Regina José Galindo, tutti di fama internazionale, con una lettera aperta alle autorità, in cui denunciavano gli arresti. La missiva ha fatto il giro del mondo, respingendo “l’uso insistente di aggettivi obsoleti per riferirsi ai manifestanti come mercenari e nemici della rivoluzione”.
Nel frattempo Bruguera ha annullato la sua partecipazione alla Biennale di Kochi-Muziris nel Kerala, il più importante evento d’arte in India, mandando una lettera accorata: “Come artista sento che oggi il mio dovere non è esporre il mio lavoro in una mostra internazionale ma stare con i miei compagni esponendo la vulnerabilità degli artisti cubani al giorno d’oggi”. Denunciando le minacce ricevute da parte delle forze dell’ordine, ha aggiunto: “L’ingiustizia esiste perché le ingiustizie precedenti non sono state sfidate. Ironicamente, vi mando questa lettera il 10 dicembre, giorno internazionale dei diritti umani».
A Cuba qualcosa è successo.
@fabiobozzato
Il nuovo presidente ha fama di essere più liberal dei Castro, ma il primo decreto che ha firmato è stato un giro di vite sulla libertà di espressione. Nel mondo artistico cubano si è messa in moto una protesta senza precedenti, che sta costringendo il potere a fare marcia indietro