Cos’è il sogno cinese propagandato dal Partito Comunista e in particolare dal segretario, presidente e capo della commissione militare Xi Jinping? Fino ad oggi lo slogan è stato soprattutto un invito sancito da cartelloni pubblicitari in giro per le città cinesi e il tentativo di raccogliere un rinnovamento della nazione cinese. Dal punto di vista politico e teorico, però, è apparso ancora una scatola vuota.
Si è parlato a lungo di come, inoltre, il sogno cinese, costituisca per molti cinesi un motivo di ironia e di riflessione su alcune arretratezze civili del paese, basti pensare alla nuova e recente campagna di repressione on line; secondo altri, si tratta di voci provenienti dagli ambiti militari, il sogno cinese non sarebbe altro che un sogno di potenza della Cina: dopo anni di diplomazia attendista e ambigua da parte di Hu Jintao, restio a prendere decisioni e quasi sempre a rimorchio di decisioni presi da altri, per la Cina sarebbe giunto il momento di fare la voce grossa.
C’è chi declina questa lettura da un punto di vista puramente militare, un esercito in forma smagliante per le tante sfide territoriali in corso, come deterrente per i rivali, chi invece si sofferma sul nuovo ruolo diplomatico della Cina nel nuovo contesto mondiale in costante evoluzione (basti pensare alla crisi siriana).
Chi si pone a capo di questa seconda fazione, è Yang Jiechi, già ministro degli esteri e ora responsabili dell’Ufficio degli affari esteri del Consiglio di Stato. Un suo articolo, pubblicato su The National Interest, dal titolo emblematico, Implementing the Chinese Dream, prova a tratteggiare le linee guida del nuovo posizionamento cinese nel mondo.
Insieme ad un’introduzione di quanto fatto da Xi Jinping in termini di incontri con i potenti (Putin, Obama ad esempio), senza dimenticare l’attenzione cinese nei confronti dei paesi in via di sviluppo, Yang Jiechi prova a sistematizzare il “sogno cinese” con un esplicito riferimento alla politica estera nazionale: «Il sogno cinese richiede un ambiente internazionale pacifico e stabile» scrive Yang specificando che «la Cina si è impegnata a realizzare il sogno attraverso uno sviluppo pacifico». Il sogno cinese – e avviene qui una rivisitazione del concetto nazionale – è collegato «ai sogni degli altri popoli di tutto il mondo». Riecheggiando le parole di Li Keqiang al forum di Dalian, di cui abbiamo parlato nel post precedente di questo blog, la Cina è dunque disponibile ad «aiutare gli altri paesi, i paesi in via di sviluppo e quelli limitrofi, in particolare, al loro sviluppo; La Cina spera di mettere in opera una cooperazione win-win e lo sviluppo comune con il resto del mondo».

Con l’intervento di Yang sembra dunque delinearsi una strategia della leadership volta a sistematizzare tre principali concetti:
– dal punto di vista ideologico la stretta sarà totale, come testimoniano i recenti arresti. In un momento di flessione economica e necessaria ristrutturazione, Xi Jinping sembra avere la volontà di serrare i ranghi, chiedendo al Partito il massimo sforzo per evitare o quanto meno mantenere sotto controllo le tensioni sociali. I richiami al maoismo, oltre che un appiglio simil populista in occasione dei 120 anni dalla nascita del Grande Timoniere (che avverrà a dicembre), sembrano inoltre andare incontro al recupero dell’ala più a sinistra del Partito, stroncata solo apparentemente dalla vicenda Bo Xilai e invece ancora forte all’interno del mondo dei funzionario del PCC.
– dal punto di vista economico Li Keqiang ha sottolineato, ancora una volta, i tre pilastri della Likonomics, la ricetta del paese per ristrutturare la propria economia: tenere sotto controllo il settore bancario, quello dei debiti delle amministrazioni locali, aumentare il mercato interno senza sostegni statali come nel passato, cominciare la mastodontica operazione di liberalizzazione delle aziende di stato (anche grazie alla campagna anti corruzione).
– dal punto di vista della politica estera, Yang Jiechi ha ribadito la necessità per la Cina di sottolineare il proprio peso nel mondo, come già sottolineato da Xi Jinping in occasione degli incontri con Obama, quando si lanciò lo slogan di «un nuovo rapporto tra grandi potenze». Una Cina in grado di prendere decisioni importanti e porsi come riferimento naturale della governance mondiale.