
Un paese è anche quello che le circostanze lo costringono a essere. Dalla Primavera araba in poi, l’immagine dell’Egitto continua a ribaltarsi.
Per un lunghissimo periodo l’Egitto è stato il nostro miglior partner sull’altra sponda del Mediterraneo. Nel quadro generale che presentava allora il mondo arabo, il regime del Presidente Mubarak appariva come un’oasi di stabilità e relativa moderazione. Il paese era calmo, la sicurezza garantita, le prospettive d’investimento in linea di massima favorevoli. Per di più esso dipendeva pressoché totalmente dall’estero, e in questo quadro per buona parte dall’Italia, per quelle che erano le sue tre maggiori fonti di entrata: le rendite petrolifere, un settore in cui l’ENI giocava un gran ruolo, i transiti per il Canale di Suez, spesso diretti ai porti italiani, e infine il turismo, con gli italiani di nuovo in prima linea per il numero di presenze. Ed era proprio il turismo, con il suo flusso di valuta pregiata che in piccola parte andava allo Stato, ma per la maggior parte si disperdeva ogni giorno in infiniti rivoli che raggiungevano immediatamente le tasche di milioni di egiziani, a giocare il ruolo di calmiere di una situazione pur sempre colma di potenziali tensioni. Per gli italiani, che lo consideravano soprattutto come un paradiso delle vacanze, l’Egitto era quindi “buono”, tanto più buono poi in quanto il panorama generale del mondo islamico sembrava farsi ogni giorno più cupo e più teso.
Una visione un po’ troppo idilliaca che non ha resistito allorché la “primavera araba” del Cairo ha evidenziato l’altissimo livello di malcontento che covava sotto la cenere di un paese fino a quel momento apparentemente tranquillo. In pari tempo essa ha anche mostrato a tutto il mondo quali fossero le dimensioni e i metodi repressivi di un apparato di sicurezza basato sul binomio Servizi – Polizia, eventualmente supportati, qualora ve ne fosse bisogno, anche dalle Forze Armate. Pressoché contemporaneamente s’intensificavano poi i sanguinosi attentati di un terrorismo estremista orchestrato con la precisa strategia di ridurre drasticamente i proventi del turismo, aumentando così il disagio collettivo e di conseguenza il malcontento popolare. In quel momento, e per tutto il successivo periodo del dominio della Fratellanza Islamica, l’Egitto è divenuto così per la nostra opinione pubblica un paese “cattivo ” e ciò nonostante il supporto fornito inizialmente da molti paesi occidentali, primi fra tutti gli Stati Uniti, al Governo Morsi.
Il colpo di stato del Generale Al Sisi ci ha poi lasciati almeno inizialmente interdetti. Si trattava infatti chiaramente di un “golpe“, anche se appoggiato e quasi richiesto dalle forze più liberali del paese. Era quindi qualcosa di inaccettabile, almeno in teoria, per le democrazie dell’Occidente. Il Generale ebbe però l’abilità politica di ricercare subito una conferma elettorale legittimante. Riuscì inoltre ad assicurarsi in breve tempo l’appoggio tanto della grande Università di Al Ahzar, il primo punto di riferimento dell’Islam sunnita, quanto della comunità cristiana copta, e quindi indirettamente anche del Vaticano. In tal modo Al Sisi, e di conseguenza l’Egitto, ritornarono rapidamente “buoni”, mentre il palese clima di repressione che regnava in tutto il paese veniva giustificato da condizioni di sicurezza che rimanevano molto precarie, specie nell’area del Sinai.
Il barbaro assassinio del povero Giulio Regeni e la reticenza dimostrata in seguito dal Cairo nel collaborare con il Governo e la Magistratura italiana hanno poi cambiato di nuovo le carte in tavola. Trascinati nel vortice di un caso che era umano, giuridico e politico nel medesimo tempo, il governo italiano ha commesso una serie di gravi errori reagendo emotivamente e non in maniera ragionata. E l’ha fatto ritirando l’Ambasciatore al Cairo quando sarebbe stata necessaria una presenza autorevole in loco; pretendendo dalla Polizia e dalla Magistratura egiziana dei risultati probanti in tempi che sarebbero stati assolutamente inaccettabili anche per le nostre autorità; presupponendo sin dall’inizio sui nostri mass media complicità di altissimo livello nel proteggere gli assassini, accanendosi sull’Egitto ma evitando di investigare su eventuali altre corresponsabilità.
In termini arabi si è fatto tutto quello che si poteva per porre il nostro interlocutore in condizione di non poter cedere su nessun punto senza rischiare di perdere la faccia… e la faccia è qualcosa che in quel mondo non si può mai perdere! D’altro canto però è apparso chiaro sin dall’inizio come la ricerca delle responsabilità in Egitto fosse a tal punto intralciata da una lotta senza esclusione di colpi fra diversi settori dei locali apparati di sicurezza da rendere impossibile accedere alla verità, almeno per il momento. In questo clima il dubbio che rimaneva su Al Sisi era se egli fosse da considerarsi – sia pure indirettamente – come un responsabile dell’assassinio, oppure come una vittima dell’azione di forze a lui indispensabili per la sopravvivenza del suo regime ma che non era in condizione di controllare pienamente. Nel dubbio, in ogni caso per la nostra opinione pubblica una cosa sola rimaneva certa: che l’Egitto e il suo Presidente erano da considerarsi “cattivi”.
Un definitivo punto di arrivo? No di certo, considerato poi come il raziocinio abbia progressivamente preso il posto del sentimento e dell’emotività e come, in tale clima, le ragioni della realpolitik abbiano finito se non con l’imporsi perlomeno con l’essere prese in considerazione. Così abbiamo rivisto con altri occhi la condizione di un paese e di un regime pesantemente minacciati da un possibile ritorno integralista e che già combattono nel Sinai una vera e propria guerra civile contro l’estremismo. Abbiamo considerato come l’Egitto rimanga estraneo alla vicenda dei migranti e sia riuscito sino ad ora ad evitare che le sue coste divengano le sponde di partenza di un altro esercito di disperati nord africani e sub sahariani. Abbiamo riflettuto su quanto sia opportuno mantenere sicuro il transito per il Canale di Suez, specie alla vigilia di quella grande rivitalizzazione delle Vie della seta di cui anche l’Italia dovrebbe molto beneficiare. Abbiamo anche analizzato i risultati prodotti dal ritiro dell’Ambasciatore, scoprendo che sono stati tutti negativi e che il gesto non ha fatto compiere un solo passo avanti all’inchiesta.
Così è stato deciso di far rientrare l’Ambasciatore italiano al Cairo, sperando che il clima di normalizzazione delle relazioni finisca col produrre i suoi effetti anche nell’ambito del caso Regeni. Il gesto non sottintende un’assoluzione totale per l’Egitto, destinato quindi d’ora in poi a ritornare automaticamente nell’elenco dei paesi “buoni”. Anche perché nessun paese è mai del tutto buono o del tutto cattivo. Un paese è quello che è e quello che lo costringono ad essere le circostanze del momento. Persino una grande e consolidata democrazia come gli Stati Uniti tiene in piedi orrori come Guantanamo o limita le libertà fondamentali dei cittadini con il “Patriot’s Act” allorché si sente minacciata.
Dunque l’Egitto è: “buono” o “cattivo”? Probabilmente entrambe le cose al medesimo tempo!
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Un paese è anche quello che le circostanze lo costringono a essere. Dalla Primavera araba in poi, l’immagine dell’Egitto continua a ribaltarsi.