Il flusso dei “foreign fighters” si è fermato. Ma nei Balcani occidentali segnati da Stati deboli e identità forti, gli incubatori di idee radicali si moltiplicano. Grazie anche a sponsor stranieri che vogliono contrastare l’egemonia della Ue. Scossa dal flop del referendum macedone
Bruxelles – In Albania, Bujar Hysa è stato condannato a 18 anni di carcere per incitamento al terrorismo e reclutamento di combattenti per la Siria, mentre i suoi otto compagni dovranno scontare in tutto una pena di 108 anni di prigione. In Macedonia, 16 uomini sono stati accusati di crimini legati al foreign-fighting e poi condannati con sentenze dai 2 ai 7 anni. Il predicatore musulmano Mirsad Omerovic è stato condannato da una corte austriaca a 20 anni di prigione per attività di reclutamento. In Bosnia, sono 13 i radicalizzati ogni 100mila musulmani, in Kosovo 18.
Tra le crepe del passato, della corruzione, delle tensioni etniche e religiose, nei Balcani occidentali sono decine i sospetti e militanti terroristi arrestati e interrogati per il loro coinvolgimento a vario titolo in gruppi come l’Isis. Dal 2012 al 2016, un vero e proprio contingente di oltre mille persone tra uomini (723), donne (155) e bambini (197) è partito dai Balcani occidentali per l’Iraq e la Siria. «Negli ultimi due anni, lo jihadismo nella regione si è fermato ma non la radicalizzazione, è come se stesse dormendo», spiega Gerta Zaimi, ricercatrice al Centro di studi strategici e internazionali dell’Università di Firenze, durante una conferenza organizzata dalla European Foundation for Democracy al Parlamento europeo a Bruxelles.
Le partenze, poi il silenzio
Le partenze hanno iniziato ad avere un ritmo sostenuto nel 2012, mentre l’Isis avanzava in Siria e in Iraq e usava le lingue della regione balcanica e i social network per attingere a nuove forze. Il picco si è registrato l’anno successivo, per poi rallentare e arrestarsi nel 2016 in modo analogo e speculare. Per raccontarla con i numeri di Vlado Azinovic, esperto di terrorismo e professore dell’università di Sarajevo, di quei mille partiti in quattro anni, 233 sono morti, approssimativamente 464 formano il contingente ancora in Siria e Iraq nel 2017, e 319 sono rientrati. «Un terzo delle persone è tornato a casa e per loro ogni Paese ha un approccio diverso. Da due anni non c’è più alcun flusso né in entrata né in uscita dal Medio-Oriente», aggiunge Zaimi.
Ed è proprio nella calma apparente che i semi della radicalizzazione si sedimentano. Non solo in Bosnia, dove il proselitismo salafita da anni distrugge l’identità culturale ed etnica per trasformarla in una mera identità religiosa, ma anche in Kosovo e Macedonia sono profondi i segni della radicalizzazione, esacerbata dalla mancanza di responsabilità politica e tensioni interetniche.
Il problema è reale e sociale, senza forzatamente farsi trascinare dalla teoria della “dorsale verde”, che immagina l’unione ideale dello jihadismo islamico nei Balcani a dispetto degli Stati di appartenenza, dalla minoranza nella Tracia greca, per arrivare fino alle soglie di Zagabria.
Edward P. Joseph, professore al dipartimento di studi internazionali della Johns Hopkins, riassume con fermezza la situazione: «Nei Balcani c’è la più alta concentrazione pro-capite in Europa di combattenti rimpatriati, quei circa 300 si concentrano in Paesi con pochi abitanti, in un contesto molto frammentato, Stati deboli e identità forti. Nell’Europa occidentale i numeri sono simili ma i foreign fighters rientrati sono dispersi in Paesi con una popolazione molto più ampia e con apparati di sicurezza e società molto diverse, attrezzate per affrontare il problema». A questo si aggiunge la radicalizzazione non violenta, quella tutta interna, che con l’Isis non ha nulla a che vedere. Si ciba dei conflitti congelati del passato e dell’infuocata retorica nazionalista e vuole bloccare la strada verso l’Ue e la Nato della regione.
La radicalizzazione non violenta, anti-Ue
A finanziarla non sono solamente Russia e Turchia. Anche i Paesi del Golfo intervengono per contrastare l’egemonia politica dell’Ue – di gran lunga primo investitore nella regione – e sfruttare l’apertura verso l’esterno delle economie dei sei Paesi.
«C’è una continua incubazione di idee radicali, anche quando non sfociano ancora in violenza», spiega Azimovic. «La narrativa dei gruppi di estrema destra è spesso allineata a dispute politiche ancora irrisolte, alcuni di loro sono legati a influenze straniere in cerca di una guerra ibrida. In alcuni casi, come in Bosnia, queste ideologie radicali non si limitano a gruppi e individui ma sono diventate un elemento fondamentale della politica tradizionale e hanno un effetto comune: interrompere l’adesione della regione alla Nato e all’Ue».
Macedonia, Bosnia e Kosovo sono infatti davanti a scelte capaci di cambiare il loro destino e quello dell’intera regione: il referendum sul nome, le elezioni politiche, e il dialogo con la Serbia.
Il voto macedone si è rivelato un flop: dietro allo schiacciante “sì” filo-europeo con il 91,46%, infatti, c’è un’affluenza alle urne molto bassa, al 36,91%, ben lontano dal 50% +1 auspicato dal governo. Rischia così di «aprirsi una nuova area», ammette Joseph, dove instabilità, estremismo e radicalizzazione potrebbero sgretolare il progetto costruito con fatica dal governo di Zoran Zaev. Anche «l’incapacità di riconoscere le minacce estremiste della Bosnia e di concentrarsi invece ossessivamente su quelle del passato potrebbe condannare la regione a un modello futile di soluzioni di ieri applicate ai problemi di domani», sostiene Azimovic.
Un piano Ue e Usa ancora inefficace
Che fare? Oltre al costante monitoraggio di Interpol, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono impegnati nella regione con un approccio simile ma ancora poco incisivo. Interrompere i canali di finanziamento dei gruppi terroristici e investire sui giovani per contrastare l’estremismo violento: si tratta di spegnere ideologie endemiche sul territorio.
«La sfida», spiega Radko Hokovsky, fondatore del think tank European Values «è un programma 2018-2020 che coinvolga l’intera comunità, civile e politica, sviluppi il ruolo delle donne e si concentri sulla riabilitazione dei combattenti rientrati». Significa, ripete spesso il commissario Ue all’Allargamento, Johannes Hahn, «esportare stabilità per non importare instabilità».
Sigillare frontiere ed estremismi è nel pieno interesse di Bruxelles. E, per ora, la roadmap sulla sicurezza è dettata dalla strategia Ue per la regione pubblicata lo scorso febbraio. Dopotutto, ricorda Joseph, «i Balcani non sono una parte aliena del mondo. Fanno parte dell’Europa. È importante ricordarlo, perché il desiderio di diventare parte dell’Unione è il modo più efficace per contrastare la radicalizzazione».
@raelisewin
Il flusso dei “foreign fighters” si è fermato. Ma nei Balcani occidentali segnati da Stati deboli e identità forti, gli incubatori di idee radicali si moltiplicano. Grazie anche a sponsor stranieri che vogliono contrastare l’egemonia della Ue. Scossa dal flop del referendum macedone