All’uscita di scuola, i bambini trovano il carretto delle granite. E la ricostruzione nell’ex capitale del Califfato fa significativi passi avanti. Ma mancano acqua e elettricità, l’allarme sicurezza è continuo e il rapporto tra curdi e arabi da reinventare. Come il futuro
Raqqa – «Foto, foto, facci una foto!». Un fiume di bambini gioiosi si riversa nel cortile di una scuola di Raqqa. È ricreazione e fuori dal cancello un carretto vende le granite.
Paragonata a pochi mesi fa, la ricostruzione di Raqqa ha fatto significativi passi avanti. Molte più strade sono state ripulite dalle macerie e nuove attività commerciali affollano il viale che conduce alla piazza dell’orologio. I negozi di abbigliamento espongono camicie sulle grucce attaccate alle vetrine con le ventose, e i fast food raccolgono intorno ai tavoli all’aperto gruppetti di uomini intenti a discutere. La maggior parte guarda con curiosità il passaggio delle auto, dei taxi, dei mezzi militari che solcano la polvere delle strade cittadine. Provano a carpire uno sguardo, a riconoscere una mimetica. Tastano l’aria perché a Raqqa niente è dato per scontato, soprattutto la normalità. Quella va piuttosto ricostruita a piccoli passi, a cominciare dalle esigenze reali della popolazione locale.
Lo fanno quotidianamente le organizzazioni internazionali come l’italiana Un Ponte Per…, che lo scorso 16 settembre ha inaugurato un nuovo ospedale con un reparto di maternità e pediatria pronto ad accogliere fino a 300 persone al giorno. Insieme a Upp ci sono anche Medici Senza Frontiere-Msf e Syria Relief, i cui ospedali sono una boccata di ossigeno per le 145mila persone rientrate a vivere a Raqqa e che non possono affrontare il costo delle cure mediche negli otto ospedali privati della città.
«Quando siamo tornati», commenta Khaled Abdallah, membro del Comitato della Salute del Raqqa Civil Council-Rcc, l’organo che amministra la città, «abbiamo ipotizzato che ci sarebbero voluti vent’anni per sistemare tutto. Nonostante le risorse limitate di cui disponiamo e i pochi aiuti ricevuti, siamo stati in grado di far funzionare la città in meno di un anno». Tanto è passato da quando le Syrian Democratic Forces-Sdf a maggioranza curda e alleate degli Stati Uniti hanno liberato Raqqa dall’Isis. Per farlo non hanno lesinato l’impiego di forze aeree e i bombardamenti hanno ridotto la città a un ammasso di macerie. «Non ci sono epidemie», continua Abdallah, «ma non tutta l’acqua è ancora potabile. Abbiamo già distribuito 7mila vaccini e ci resta da affrontare il problema di oltre 250 pazienti dializzati che sono costretti a fare lunghi viaggi, anche più volte a settimana, per curarsi».
La visione positiva di Abdallah e del Rcc si scontra con quella di molti cittadini che non credono ai proclami né alle bandiere del leader del Pkk Öcalan issate sugli edifici. La loro prospettiva è quella della vita quotidiana, in cui sono più le cose che mancano di quelle che funzionano e dove ha terreno fertile l’insofferenza verso la nuova amministrazione della città. «Che bisogno c’era di distruggere tutto?», sbotta Ahmed fuori dalla sua sartoria «Adesso siamo senza acqua ed elettricità. E perché questi bambini sono qui invece di andare a scuola? Hanno otto e undici anni e sono analfabeti. Vogliamo indietro la nostra città, come era prima. La coalizione ha bombardato qualsiasi cosa e non ha rimesso in piedi neanche un ponte».
Oltre alle mine e ai frequenti attacchi alle forze di sicurezza locali «messi in atto», come spiega il portavoce delle Sdf Kino Gabriel, «da cellule dormienti controllate da Damasco o da gruppi finanziati dalla Turchia e dall’Iran», il nodo dell’instabilità di Raqqa sta soprattutto nel fatto di essere stata eretta a baluardo della lotta all’Isis da parte di quelle forze che oggi la governano e ne sostengono economicamente la ricostruzione. Alla domanda se esista un conflitto tra le comunità arabe e curde, Abdallah risponde: «C’è sempre qualche insoddisfatto. A Raqqa ci conosciamo tutti, siamo delle famiglie-tribù. Piano piano anche questo nostro tribalismo dovrà scomparire».
Il sistema sociale di cui parla il membro del Rcc è tipico delle popolazioni arabe sunnite che abitano queste zone della Siria. Lasciarsi alle spalle la propria identità per abbracciare, col tempo, una nuova visione del mondo può essere rischioso se vissuto come un’imposizione. Il modello di società promosso dal Rcc si ispira a quello dei curdi del Rojava, di cui lo spirito anti-capitalistico e la liberazione della donna sono caratteristiche fondamentali.
Quest’ultima, in particolare, è una questione che tocca tanto le donne di Raqqa che andranno a lavorare nei consigli cittadini – e che per farlo devono seguire corsi di formazione sull’autocritica, la rivoluzione del Rojava e l’autodifesa – quanto quelle senza impiego pubblico che possono trovare nella Casa delle donne un luogo protetto dove confrontarsi e cercare aiuto.
L’insicurezza a Raqqa è un dato di fatto. Le ragioni sono molteplici e riguardano ogni aspetto della vita, materiale e ideologico. Dopo il regime, l’Isis, e oggi il Rcc, il timore di una nuova occupazione non si è ancora placato. In mezzo a questo percorso di ricostruzione, la popolazione non sa cosa aspettarsi dal futuro né dove andrà a collocarsi nella Siria che verrà.
@linda_dorigo
Prima parte del reportage “A che punto è la rivoluzione curda in Siria”
All’uscita di scuola, i bambini trovano il carretto delle granite. E la ricostruzione nell’ex capitale del Califfato fa significativi passi avanti. Ma mancano acqua e elettricità, l’allarme sicurezza è continuo e il rapporto tra curdi e arabi da reinventare. Come il futuro