Madrid riesuma il fantasma del franchismo e regala così un’insperata legittimità al referendum separatista. L’imminente dichiarazione di indipendenza della Catalogna chiama in causa anche l’Europa. Ora tocca trovare una via d’uscita dall’arrocco sovranista.
Se Mariano Rajoy non esistesse, i secessionisti catalani avrebbero dovuto inventarlo. Le ragioni dei referendari non stanno in piedi sul terreno del diritto e zoppicano nell’applicazione delle regole del gioco democratico. Ma il governo spagnolo ha fatto tutto il possibile per dare legittimità e forza alla spinta secessionista, mostrando il volto peggiore del potere centrale.
Il tentativo di impedire manu militari lo svolgimento di una consultazione già squalificata dal Tribunale costituzionale ha trasformato la questione separatista in una appassionata battaglia per la libertà, mobilitando il popolo catalano come gli opachi leader indipendentisti non sarebbero mai riusciti a fare.
Madrid ha reso così credibili le parole del presidente della Generalitat Carles Puigdemont, che ha preannunciato domenica sera un’imminente dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del parlamento catalano, sulla base del consenso espresso nelle urne da una minoranza di votanti.
Il referendum poteva essere liquidato come una nuova consultazione informale, dopo quella che nel novembre del 2014 aveva solo increspato la stabilità dello Stato spagnolo. Il risultato non è molto lontano da quello di allora. Secondo le stesse cifre della Generalitat, domenica ha votato una minoranza degli “aventi diritto” (42%), che si è pronunciata a stragrande maggioranza per il sì (90%). Fatte le somme, i catalani che hanno espresso un voto favorevole alla separazione della Spagna sono circa il 38%.
Ma sono cifre che hanno un peso relativo visto il modo in cui si è votato. Le scuole sono diventate delle trincee, le famiglie che le occupavano in un clima da notte prima degli esami eversori da neutralizzare, le schede elettorali il corpo del delitto. In alcuni seggi i cittadini sono stati cacciati dall’irruzione della Guardia Civil e magari sono andati a votare altrove. In almeno un caso sono stati i votanti a costringere alla fuga gli uomini in divisa. E sulla dinamica politica ormai fuori controllo incidono altri numeri. Centinaia di feriti tra i civili (822 è la cifra fornita da fonti mediche), undici tra le forze dell’ordine, novantadue seggi chiusi con la forza secondo Madrid, 319 stando al governo autonomo.
Quella di ieri è stata una disfatta annunciata, anche se ottusamente rivendicata come una vittoria oggi da Madrid. E non poteva andare diversamente, in una democrazia, quando si prova a impedire lo svolgimento di un voto qualsiasi inviando i gendarmi con i pennacchi e con le armi a spaventare i votanti. E a pestare se occorre coloro che non si fanno spaventare.
Non è solo una questione di cuori e di menti da conquistare. Con la decisione di sottoporre le forze di sicurezza regionali all’autorità della Guardia Civil , Madrid ha messo alla prova la sua sovranità effettiva sul territorio. I gendarmi hanno ordinato, ma i Mossos d’Esquadra non hanno obbedito. Il governo ha imposto così una verifica del suo monopolio della forza, azzardo forse più rischioso per la tenuta dello Stato di una sfida referendaria dagli incerti risvolti pratici. E questo martedì la Catalogna potrebbe vivere una nuova giornata di passione in occasione dell’annunciato sciopero generale.
Lo sbocco conflittuale del braccio di ferro politico e istituzionale è una deriva complicatissima da gestire in un Paese che l’anno prossimo festeggerà il quarantesimo anniversario della Costituzione, tappa conclusiva di una tortuosa Transiciòn alla democrazia. La giornata di ieri ha riportato alla memoria di molti gli anni più bui del franchismo, quando il regime sopprimeva ogni forma di catalanismo e controllava con il manganello o peggio la libertà di espressione.
Non è chiaro se a Mariano Rajoy faccia difetto la coscienza storica per grettezza politica, o se nel momento del confronto siano tornate fuori le peggiori pulsioni del Partido Popular che ha raccolto e traghettato nel sistema politico democratico l’eredità del franchismo. L’impressione è che le autorità madrilene siano state colpite da una sindrome di accerchiamento, arroccandosi attorno allo “spagnolismo” più angusto. L’ultima perla prima del voto è stata la suicida campagna lanciata via social dai popolari in cui si denunciava “l’ispanofobia” dei separatisti, presentando così la sfida referendaria come un conflitto tra piccole patrie. Ma la partita catalana si gioca anche oltre frontiera.
Sia da Madrid che da Barcellona sono partiti appelli destinati all’Europa. Dopo aver incassato il tiepido sostegno dei partner riuniti in Estonia, Madrid aveva chiesto la chiusura delle frontiere per evitare l’ingresso nel Paese di elementi radicali, fossero essi secessionisti sardi, corsi, fiamminghi o teste calde tout court. Un modo per avvertire che il precedente catalano può creare un effetto domino su scala europea. E a Bruxelles si è rivolto ieri anche Carles Puigdemont, perché, sostiene, “la Ue non può più ignorare la Catalogna”.
Un intervento formale da parte dell’Unione è fuori discussione. La Ue non ha nessuna competenza diretta in una materia che dal punto di vista del diritto è davvero “un affare interno della Spagna”, come ha ricordato Juncker. Questo però non deve tradursi per forza in un pilatesco silenzio. La questione catalana chiama in causa l’Europa. Certo, la sfida separatista è ancorata a trecento anni di storia locale, ma è pensabile oggi solo nel contesto del processo di integrazione europea, perché c’è una casa comune che idealmente può accoglierla.
Nulla deve fare l’Europa per accelerare questo processo di emorragia della sovranità verso il basso. Ma la difesa dello Stato spagnolo non è di per sé una causa europea. Tanto più se si esercita con l’uso di mezzi che si presumeva fossero stati abbandonati quando Madrid ha fatto il suo ingresso nella comunità.
All’Europa tocca un compito di mediazione. Per svolgere questa funzione non serve necessariamente un piano europeo. Si potrebbe ripartire da quello spagnolo, lo Statuto votato dalle Cortes nel 2006 che riconosceva la “nazione” catalana, amputato nel 2010 dal Tribunale Costituzionale in seguito a un esposto dei popolari. Per imboccare questa o un’altra via però, Mariano Rajoy dovrebbe innanzi tutto tornare alla politica, accettando che un referendum sui generis per l’indipendenza si è effettivamente svolto in Catalogna. E farlo prima che l’arrocco sovranista non metta davvero a rischio l’integrità della Spagna democratica.
@luigispinola
Madrid riesuma il fantasma del franchismo e regala così un’insperata legittimità al referendum separatista. L’imminente dichiarazione di indipendenza della Catalogna chiama in causa anche l’Europa. Ora tocca trovare una via d’uscita dall’arrocco sovranista.