L’analisi dei movimenti della produzione di ricchezza nel mondo è contributo essenziale al dibattito sulla distribuzione del reddito all’interno delle singole società.

Il referendum svizzero di metà novembre ha sancito che finanche il severo calvinismo elvetico non ha considerato ragionevole ridurre artificiosamente la differenza tra la retribuzione minima e quella massima di un’azienda a un rapporto di 1 a 12 (da 1 a oltre 200 che oggi caratterizza in media le grandi aziende nei vari cantoni).
La crisi ha certamente evidenziato limiti anche di tenuta sociale nelle democrazie occidentali e l’equilibrio retributivo, lungi dal costituire un problema economico, va affrontato con serietà e onestà intellettuale, provando a conciliare esigenze contrapposte come l’accettabilità sociale, da un lato, e la capacità di attirare competenze e talenti dall’altro. Io non ho ricette miracolose per individuare il rapporto ideale tra retribuzioni medie ed apicali (e credo sia sbagliato anche cercare soluzioni magiche, avulse dal contesto), ma possiamo usare lo spazio di questo articolo per provare ad allargare la lente di osservazione e fornire elementi utili sulla distribuzione della ricchezza nel mondo, così da inquadrare correttamente dibattiti come quello dal quale siamo partiti.
Il 2013 è un anno cruciale: per la prima volta da quando è partita la rivoluzione industriale nel XIX secolo, la quota maggiore di beni e servizi sarà stata prodotta dalle economie emergenti le quali, secondo il Fondo Monetario Internazionale, solo a metà anni Ottanta, detenevano non più del 31% della ricchezza globale (vedi schema 1).
Tale rapporto evolverà nei decenni successivi in modo progressivo: anni Novanta, emergenti al 46% e avanzati al 54%; nel primo decennio del terzo millennio, il rapporto si inverte (67% contro 33%) e la forbice si divarica ancor di più nella previsione del quinquennio che stiamo vivendo (2012-17: 74% a 26%).
Se spacchettiamo queste cifre, vediamo che Usa e Cina cresceranno entrambe, portandosi, nel 2017, alla metà delle quote, rispettivamente, dei paesi avanzati ed emergenti (13,9% contro 33,6%), con l’India al 9,4%, i MIST a più del 7% e un’Europa occidentale “non pervenuta”!
Per completare e commentare questi dati, uso un affascinante studio di McKinsey (sche – ma 2), che ha cercato di calcolare lo spostamento del centro di gravità economico del pianeta, assumendo di dare un peso ai singoli attori. Partendo dal presupposto che all’anno zero il centro economico di gravità terrestre fosse bilanciato tra Europa e Cina, esso avrebbe dovuto trovarsi più o meno nell’odierno Pakistan.
Il cambio più drammatico si è avuto quando l’Europa e il Nord America hanno dato luogo al loro processo di industrializzazione e il baricentro si è spostato in un punto dell’Atlantico del Nord, pressappoco al di sopra dell’Islanda. Oggi, con il ritorno sulla scena della Cina, il centro di gravità è nel nord della Siberia ed è previsto che ritorni quasi dov’era duemila anni fa, tra 15 anni.
Nel 2030, due terzi della classe media mondiale risiederà nelle regioni asiatiche e del Pacifico, mentre Stati Uniti ed Europa, che oggi annoverano più della metà della classe media globale, vedranno ridurre tale proporzione a un preoccupante 21% fra 17 anni (schema 3).
La nostra riflessione deve integrare a questi freddi (ma non insignificanti) numeri quelli che molti analisti definiscono i “sette pilastri della saggezza occidentale”: libero mercato, scienza e tecnologia, meritocrazia, pragmatismo, cultura della pace, primato della legge, istruzione. L’OCSE, nel suo Skills Outlook Report di poche settimane fa, ha osservato che esiste una forte correlazione tra accesso a Internet e competenze matematiche da una parte, e potenziale di crescita di un paese, dall’altra. I paesi con minore accesso a Internet sono quelli che hanno sofferto di più la crisi e faticano a uscirne.
Lo storico britannico John Glubb identifica, in un suo libro del 1978, gli indicatori del declino degli Imperi: individualismo; pessimismo dilagante tra gli intellettuali; stato sociale diffuso e insostenibile che crea dipendenza e pigrizia; incapacità – che accomuna persone comuni e leader – a ricercare e individuare soluzioni ai problemi.
Ancora una volta, noi Europei non possiamo evitare la responsabilità di giocare un ruolo (pena la nostra stessa dissolvenza) nell’identificare un nuovo modello di società che renda compatibili crescita e solidarietà, meritocrazia ed equilibrio sociale, spirito di sacrificio e obiettivi collettivi. Solo in questo modo, possiamo tornare protagonisti e punto di riferimento per le società emergenti e per i grandi investitori internazionali, continuando a produrre cultura, innovazione, commercio e lavoro.
L’analisi dei movimenti della produzione di ricchezza nel mondo è contributo essenziale al dibattito sulla distribuzione del reddito all’interno delle singole società.