Piange, non ce la fa proprio a ricordare il passato. «Hanno ammazzato mio figlio, aveva due anni. Ce l’avevo in braccio, hanno iniziato a colpirlo e a colpirmi con machete e bastoni. Non so come ho fatto a sopravvivere, probabilmente mi hanno creduto morta. Certo è che per vivere una vita così avrei preferito morire insieme a mio figlio».

Beatrice è una donna di quarant’anni, ne aveva venti quando un gruppo appartenente alle milizie Interahamwe, le frange più violente ed estremiste della popolazione Hutu, è entrato in casa sua a Nyamata per uccidere suo marito. Non l’hanno trovato perché era in Uganda per lavoro e allora si sono accaniti contro lei e suo figlio. «Anche se l’avessero trovato ci avrebbero ammazzato lo stesso, erano lì per quello». Beatrice da quel giorno è senza un figlio e senza l’uso delle braccia, spezzate, tagliate, dalla forza e dalla violenza delle milizie Hutu. «Vivere così è un inferno. Non posso più sentire i bambini piangere, e quando li sento impazzisco, inizio a urlare come una pazza. Mi ricordano le urla di mio figlio, che non sono stata in grado di proteggere».
Patriot ha 25 anni, va all’Università, studia economia, conosce bene l’inglese e anche un po’ di francese. E’ figlio di una famiglia benestante, suo padre medico, sua madre insegnante. Una famiglia benestante, quindi il primo obiettivo per le milizie Hutu durante il Genocidio rwandese. «Mio padre aveva capito che aria tirava e mi ha portato dai miei nonni nel sud del paese, a un passo dal Burundi. Da lì, nel caso le cose fossero precipitate potevamo scappare. E così è stato. L’ultimo ricordo che ho di mio padre è quando mi ha salutato risalendo sul bus per fare ritorno a Kigali. Devono averlo ucciso, insieme a mia madre, la sera stessa, o il mattino seguente. Hanno fatto razzia di tutto quello che c’era in casa. Quando sono tornato a Kigali dopo la fine del Genocidio sembrava fosse passato un tornado in casa. A parte le macchie di sangue ancora dappertutto non c’era più niente e quello che c’era era distrutto». Patriot ora ha una fidanzata, Hutu. «Non ci sono differenze etniche tra gli uni e gli altri, per me siamo tutti uguali. Non so e non voglio sapere cosa abbiano fatto i suoi genitori durante i tre mesi di massacri, lei però non ha alcuna colpa, anche se io non posso e non voglio dimenticare».
(L’autore si trova attualmente in Rwanda per una serie di reportage finanziati dal Pulitzer Center on Crisis Reporting di Washington D.C)
Piange, non ce la fa proprio a ricordare il passato. «Hanno ammazzato mio figlio, aveva due anni. Ce l’avevo in braccio, hanno iniziato a colpirlo e a colpirmi con machete e bastoni. Non so come ho fatto a sopravvivere, probabilmente mi hanno creduto morta. Certo è che per vivere una vita così avrei preferito morire insieme a mio figlio».