A Londra, il mese scorso, durante la conferenza dei donatori per la Siria, è nato un piano che potrebbe, almeno in parte, svuotare le polemiche politiche sull’onere dei rifugiati, promuovere l’economia dei Paesi limitrofi, garantire agli stessi profughi un migliore inserimento sociale, ridurre i flussi migratori verso l’Europa.
L’idea è quella di investire negli Stati che confinano con la Siria, dove si trova la maggior parte dei quattro milioni e settecentomila rifugiati registrati dalle Nazioni Unite, attraverso un mix di aiuti e garanzie commerciali, così da consentire loro di assumere parte dei siriani, trasformando un problema politico in un’opportunità di sviluppo economico.
Finora gli aiuti internazionali alle vittime della guerra civile a Damasco sono stati carenti. Quelli distribuiti all’interno della Siria faticano a raggiungere molte aree, anche perché l’assedio, contrariamente alle convenzioni internazionali, è tornato ad essere strumento politico ed arma di conflitto. Turchia, Giordania e Libano, i tre Paesi sulle cui spalle cade l’onere economico più grande in materia di accoglienza, non possono o non riescono a garantire condizioni di vita dignitose e i profughi, nel mercato del lavoro, sono spesso visti in competizione con la manodopera locale.
L’inserimento sociale dei rifugiati è difficile, per cui chi scappa dalla Siria si trova ad essere vittima di sfruttatori o ad operare nell’area dell’illegalità. Secondo Human Rights Watch, sono 250.000 i rifugiati siriani che lavorano illegalmente in Turchia. Non pochi di questi sono bambini impiegati nel settore tessile, i cui prodotti vengono esportati anche in Europa. In un report Amnesty International ha scritto invece che il 70 per cento dei rifugiati siriani in Libano vive al di sotto della soglia di povertà. Le rigide norme libanesi in materia di permessi li spingono a lavorare in nero, con l’inevitabile corollario di sfruttamento (anche sessuale, nel caso delle donne).
Il piano concepito a Londra verrà testato anzitutto in Giordania e richiederà del tempo per essere completato: se dovesse avere successo, consentirebbe a 200.000 siriani –tra i 635.000 rifugiati attualmente presenti nel Paese – di venire impiegati legalmente. L’idea non gode di grandi consensi nel regno hashemita, dato l’alto livello di disoccupazione interna, ma questa barriera potrebbe essere superata se l’economia giordana potesse godere di un sostegno internazionale, così da aumentare la propria offerta di lavoro. I prodotti giordani, secondo questo programma, dovrebbero avere un accesso più facile al mercato europeo e Amman dovrebbe ricevere prestiti a tassi agevolati per progetti di sviluppo.
Sul piano commerciale l’economia del regno ha sofferto le conseguenze della guerra nella vicina Siria e in Iraq, due tra i mercati principali del proprio export. Per fare un esempio, le vendite dell’International Technical for Metal Industries, un’azienda siderurgica giordana, sono crollate del 40 per cento dopo la chiusura della frontiera irachena, decisa da Baghdad per impedire allo Stato Islamico di imporre dei pedaggi ai camion che attraversavano la frontiera passando dal suo territorio.
Essenziale, quindi, è la negoziazione di regole più favorevoli per esportare in Europa (adesso la Giordania ha un accordo di associazione con la Ue entrato in vigore nel 2002). Amman chiede che possano essere etichettati come Made in Jordan i prodotti realizzati con materiali importati da altri Paesi, ma assemblati in patria. Matteo Fontana, ambasciatore della Ue in Giordania, ha detto che le nuove regole verranno completate entro l’estate. Non è una questione da poco. Il trattato di libero scambio tra Giordania e Stati Uniti, ad esempio, ha rafforzato notevolmente l’export verso Washington (nel 2014 è stato di 1,4 miliardi di dollari, il quintuplo di quello verso l’Europa).
La Jordan Industrial Estates Company, che amministra cinque zone industriali nel Paese, con centinaia di fabbriche, potrebbe offrire 150.000 posti di lavoro per i siriani, a cui si aggiungerebbero 50.000 impieghi in progetti labour-intensive, come la costruzione di scuole e cisterne idriche. Secondo Shanta Devarajan, capo economista della Banca Mondiale per il Medio Oriente e l’Africa, ci vorranno anni per completare il piano. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, attraverso il proprio coordinatore in Giordania, Patrick Daru, parla di due anni mezzo.
Il programma potrebbe penalizzare i migranti economici che si trovano in Giordania, in particolare gli asiatici provenienti dal subcontinente indiano. I siriani sono considerati ottimi lavoratori e, particolare non ininfluente, parlano arabo. Adesso circa 90.00 cittadini della Siria sono impiegati nel regno hashemita, soprattutto nell’agricoltura e nelle costruzioni, ma solo 5.000 di loro hanno un regolare permesso. Portarli nell’alveo della legalità sarebbe un passo importante, così come promuovere lo sviluppo dell’intera economia giordana. La filosofia del progetto è stata riassunta dallo stesso Daru: “Se riuscissimo ad avere una torta ancora più grande, potremmo condividerla con i rifugiati. Quello che viene proposto è un grande cambiamento di mentalità”.