In attesa della visita di papa Francesco, il governo di Dacca e quello di Naypyidaw firmano un accordo che prevede il rimpatrio di parte dei profughi. Ma cosa succederà ai Rohingya una volta tornati in patria non è dato saperlo
Il Myanmar e il Bangladesh hanno trovato un accordo sul rimpatrio dei Rohingya fuggiti negli ultimi mesi per evitare la repressione. Il memorandum d’intesa è stato firmato giovedì dal ministro degli esteri bengalese, Hassan Mahmood Ali, e dal ministro birmano per l’Unione, Kyaw Tint Swe. Dietro all’accordo, ci sono però due donne: il premio Nobel Aung San Suu Kyi, leader di fatto del governo del Myanmar, e Sheikh Hasina, primo ministro del Bangladesh. Entrambe hanno rivendicato con soddisfazione l’intesa raggiunta, di cui si conoscono ancora pochi particolari.
Dalle notizie fatte filtrare, l’accordo prevede che tra due mesi cominci il rimpatrio di una parte dei Rohingya che hanno trovato rifugio in Bangladesh. A occuparsi di stabilire numeri, priorità, procedure, sarà una commissione congiunta dei due governi, in via di formazione. Il governo del Myanmar ha presentato l’accordo come favorevole a entrambi i Paesi, sottolineando il carattere amichevole dei colloqui tra le due parti: “la nostra posizione di principio – recita il comunicato – è che le questioni che emergono tra due Paesi confinanti vadano risolte amichevolmente tramite negoziati bilaterali”.
Giovedì mattina Myint Kyaing, segretario permanente del ministero del Myanmar per il Lavoro e l’immigrazione, ha annunciato che il governo è pronto a rimpatriare tutti quei rifugiati che hanno provveduto a registrarsi in modo conforme alle richieste che vengono da Naypyidaw. “Siamo pronti a riprenderli non appena il Bangladesh ci manderà i relativi formulari compilati”, ha sostenuto Kyaing. L’accordo – sulla base di un memorandum del 1993 – prevede infatti che i Rohingya attualmente in Bangladesh registrino i propri dati anagrafici e quelli relativi alla residenza in Myanmar prima che fossero costretti a lasciare il Paese. Per il governo di Naypyidaw, si tratta di un passaggio necessario.
Per gli attivisti dei diritti umani, rischia di trasformarsi in una schedatura, propedeutica a un database su cui costruire un’altra operazione di pulizia etnica, il termine usato nell’ultimo rapporto di Amnesty International per descrivere la repressione subita di Rohingya. E potrebbe trattarsi anche di un modo per ridurre significativamente il numero di quanti avranno diritto al rimpatrio, ha notato Mark Farmaner, direttore della Campagna-Burma nel Regno Unito, il quale ha ricordato che chi fugge perché perseguitato, spesso non porta con sé alcun documento.
Al di là dei tempi e delle procedure, l’accordo è giudicato da molti con estremo scetticismo perché non garantisce un futuro sicuro ai Rohingya. Le organizzazioni per i diritti umani e gli attivisti della causa Rohingya sostengono che, per ora, c’è poco da celebrare. L’accordo è vago. Non è chiaro in che modo avverrà il rimpatrio, le condizioni che troveranno i Rohingya una volta tornati nelle loro case, cosa sarà offerto a quanti hanno perso tutto. Altri enfatizzano la debolezza di Aung San Suu Kyi di fronte alla giunta militare del Paese. Anche se avesse la volontà politica di favorire un rimpatrio sotto il monitoraggio della comunità internazionale, la leader birmana non avrebbe sufficiente peso politico per garantire la sicurezza dei Rohingya, una volta tornati a casa.
L’accordo tra il governo di Dacca e quello di Naypyidaw potrà essere salutato con favore soltanto quando i Rohingya potranno avere garanzie sul loro futuro, sostiene per esempio Ro Nay San Lwin, attivista per i diritti dei Rohingya, che invoca l’eliminazione del capillare sistema di discriminazione e oppressione che nega loro – tramite leggi nazionali e pratiche ordinarie – il diritto e l’accesso a salute, istruzione, lavoro. E più in generale la libertà di movimento.
Il rimpatrio – sostengono le organizzazioni delle Nazioni Unite – deve avvenire su base volontaria, e deve essere sicuro. Senza la certezza che venga meno l’apartheid e la repressione sistematica, i Rohingya rimpatriati rischiano di finire in prigioni a cielo aperto. O, peggio, di essere nuovamente vittime di pulizia etnica. Per questo, c’è chi chiede sanzioni e pressioni sul governo del Myanmar. Come viene ricordato nell’ultimo rapporto di Amnesty International, l’impunità per le passate violazioni dei diritti umani non potrà che alimentare ulteriormente il ciclo di violenza.
Molti si aspettano che la violenza venga condannata, pur con i dovuti toni diplomatici, da papa Bergoglio nel viaggio che nei prossimi giorni lo porterà prima nel Myanmar e poi in Bangladesh, dove inviterà i governi a trovare “una soluzione duratura” per “quel che riguarda lo Stato di Rachine in Myanmar e i profughi che vivono questa situazione”, secondo quanto anticipato dal cardinale Parolin.
La visita di papa Bergoglio è un successo diplomatico sia per Aung San Suu Kyi, sia Sheikh Hasina. Che si aggiunge all’accordo raggiunto giovedì sui Rohingya. Per la leader birmana, quell’accordo è un modo per guadagnare tempo, smarcandosi almeno provvisoriamente dalle crescenti pressioni della comunità internazionale. Ma prima o poi sarà costretta a spiegare se è vero o meno che, dietro l’esodo forzato dei Rohingya, ci sia la volontà del Myanmar di sbarazzarsene per sempre.
Per il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, il memorandum d’intesa è la risposta alle preoccupazioni della popolazione: generosa nell’accoglienza ai rifugiati ma preoccupata di dover sostenere un peso economico rilevante, già eccessivo per le deboli spalle finanziarie del Paese. Anche lei prende tempo. Prima o poi dovrà spiegare ai suoi concittadini che i quasi 700.000 Rohingya ospitati nella zona di Cox Bazar non andranno via dall’oggi al domani. Accordo o meno, resteranno lì per anni.
In attesa della visita di papa Francesco, il governo di Dacca e quello di Naypyidaw firmano un accordo che prevede il rimpatrio di parte dei profughi. Ma cosa succederà ai Rohingya una volta tornati in patria non è dato saperlo