Una crescita economica da capogiro, lo sviluppo di istruzione e sanità pubblica, il parlamento con la maggiore pecentuale di donne al mondo. Ma il Ruanda del boom vive in realtà sotto un regime tirannico che con molta disinvoltura viola i diritti umani e utilizza vari sistemi di torture
Alla vigilia delle elezioni presidenziali dello scorso agosto in Ruanda, la corrispondente da Londra del New York Times, Kimiko de Freytas-Tamura, spiegava che l’autoritarismo del presidente Paul Kagame è tollerato dalla comunità internazionale perché controbilanciato da prosperità e crescita economica.
Nel Paese, sconvolto dal genocidio del 1994, l’economia dal 2001 al 2015 è cresciuta in media di un 8% annuo (dato Banca mondiale), mentre la percentuale di popolazione in stato di povertà è calata dal 57% del 2006 al 40% del 2014.
La capitale Kigali è in pieno boom economico, come parte fondamentale del progetto di sviluppo del Paese noto come Vision 2020, un insieme di strategie per trasformare un’economia basata sull’agricoltura di sussistenza in un’economia basata sulla conoscenza tecnica e orientata alla fornitura di servizi, con l’ambizioso obiettivo di raggiungere lo status di Paese a reddito medio entro il 2020.
Nel frattempo, le diseguaglianze si sono ridotte, il governo ha istituito dei programmi-modello di educazione e sanità pubblica. Senza dimenticare, che il suo Parlamento vanta il 56% di donne, la maggior percentuale al mondo.
Dietro questo rassicurante scenario di crescita economica, programmi di sviluppo e stabilità politica, si cela la realtà di un regime tirannico, come testimonia un report di Human Rights Watch (HRW) pubblicato martedì scorso, sul diffuso e sistematico uso della tortura e le detenzioni illegali nel Paese africano.
Lo studio di 91 pagine dall’eloquente titolo “Vi costringeremo a confessare” rileva che i militari ruandesi detengono illegalmente e torturano i prigionieri con pestaggi, pesi legati ai testicoli, finte esecuzioni, scariche elettriche e la pratica della busta plastica con cui si simula la morte per asfissia.
Il dossier dell’Ong newyorchese ha confermato 104 casi di persone illegalmente detenute e torturate nei centri di detenzione dell’esercito ruandese tra il 2010 e il 2016. Queste informazioni sono state raccolte attraverso i racconti di 61 ex detenuti e lo studio dei processi. Tuttavia, la relazione stima che il numero effettivo dei prigionieri sottoposti a maltrattamenti sia molto più alto.
Dalle testimonianze emerge che molti prigionieri sono stati torturati fino a quando non firmavano la confessione, spesso basata su accuse inventate. Inoltre, i giudici e i procuratori ruandesi vengono incolpati di ignorare le denunce relative alle detenzioni illegali e ai maltrattamenti, diventando in questo modo complici nella creazione di una cultura di totale impunità per le forze armate.
Molti dei detenuti sottoposti ai maltrattamenti, inclusi i civili, sono stati arrestati in Ruanda da soldati ruandesi, a volte con il supporto di funzionari di polizia e dell’intelligence locale. Altri sono stati fermati nei confinanti Burundi e Repubblica democratica del Congo, mentre altri ancora erano stati inseriti nel programma di demobilizzazione e rimpatrio coordinato dalla MONUSCO, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite nella RdC. Questi ultimi sono stati però trasferiti illegalmente in Ruanda, dove secondo HRW sono stati torturati.
La ricerca evidenzia pure che la maggior parte delle vittime delle torture sono state arrestate perché sospettate di essere membri delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), un gruppo ribelle a maggioranza Hutu, operativo nelle provincie orientali della Repubblica democratica del Congo. E in numero minore, sono stati perseguiti anche gli appartenenti al Congresso Nazionale Ruandese (CNR), movimento d’opposizione in esilio in Sudafrica.
Le autorità ruandesi hanno accusato le FDLR di aver lanciato ripetuti attacchi in Ruanda dalla confinante Repubblica democratica del Congo, gli ultimi dei quali risalirebbero al 2016. Inoltre, accusano sia le FDLR che il CNR di aver portato a termine, tra il 2008 e il 2014, attentati dinamitardi in alcune città ruandesi.
Molti dei casi di maltrattamenti documentati nel rapporto, riguardano il periodo tra il 2008 e il 2014. Per questo, HRW al fine di ottenere un resoconto più aggiornato possibile sulle violazioni dei diritti umani in atto, ha intervistato cinque persone detenute e torturate nel 2016 nei centri di detenzione militari. Ha inoltre raccolto testimonianze attendibili su numerosi altri e più recenti casi di abusi, alcuni dei quali risalgono all’inizio di quest’anno. Ciò indicherebbe che le vessazioni stanno continuando.
Non è la prima volta che il Ruanda è stato accusato di praticare la tortura. Già nel 2012, Sarah Jackson, vicedirettore dell’ufficio di Amnesty International per l’Africa orientale, affermò che, «sebbene il rispetto dei diritti umani da parte dell’esercito ruandese fosse sempre più monitorato, le detenzioni illegali e la tortura di civili in Ruanda erano ancora avvolti nel segreto». E secondo la relazione di HRW, questa segretezza rimane.
È anche doveroso ricordare che, il 30 giugno 2015, Kigali ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il quale prevede che i governi istituiscano misure idonee a prevenire trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Però, a quanto pare, il governo ruandese non le ha ancora istituite.
@afrofocus
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