Niente di nuovo sul fronte, in questo caso orientale. L’est ucraino è ancora sconvolto dai combattimenti tra i separatisti filo russi e le fragili forze di Kiev, mentre il porto di Mariupol ha subito un intenso lancio di razzi tra il 24 e il 26 gennaio scorso.

Quasi dieci giorni prima, il 15, il Parlamento europeo, in uno straordinario, quanto inusitato slancio, aveva espresso la necessità che l’Unione continuasse la sua politica sanzionatoria contro Russia e indipendentisti ucraini in risposta agli “atti di terrorismo” perpetuati in Ucraina, se non si fossero prese le dovute misure per rispettare l’evanescente cessate-il-fuoco del settembre 2014. Ma, lo si capisce, l’aula politica e il teatro di battaglia soffrono di una notevole distonia, soprattutto se si parla di consesso europeo.
Così, mentre i razzi piovevano a Mariupol e la NATO reiterava la sua promessa minatoria nei confronti del Cremlino, l’Amministrazione Obama e i principali leader europei il 25 gennaio hanno risollevato la necessità di un punto fermo sulle sanzioni: andare avanti senza “se” e senza “ma”, valutandone la portata temporale. Tutto questo nonostante Mosca avesse già mostrato, pur iniziando a percepire una certa sofferenza per il combinato “calo del prezzo del greggio+ sanzioni”, quanto l’aspetto geopolitico della propria condizione di “Russia”, attore di primo livello, non fosse in secondo piano rispetto alle ristrettezze economiche e finanziarie, un aspetto del pensiero russo che trova plurime conferme durante tutto l’arco della Guerra Fredda. Ciò, chiaramente, ha un certo qual riscontro solo nel breve periodo, fin quando il peso del declino diviene un fardello ineliminabile, senza gravi aggiustamenti.
Lo stallo imposto al Consiglio europeo dal neo-governo greco di Alexis Tsipras con Syriza, tra il 27 e il 28 gennaio, seppur di intralcio nello svolgersi rapido degli eventi, ha avuto il merito di riportare alla ribalta una situazione di grande interesse, vale a dire l’interazione che il Cremlino porta avanti da tempo, ben prima delle sanzioni del Marzo 2014, con alcuni esponenti politici europei, soprattutto di quel gruppo di paesi della “faglia sud di debolezza”.
Non è certo un mistero che Mosca, nel tentativo di portare avanti il più classico dei dettami politici, il divide et impera, abbia intessuto una fitta rete di relazioni con il sottobosco anti-euro e “frondista” tra Italia, Francia, Spagna e, in particolare, Grecia. Atene ha puntato inizialmente i piedi perché l’ultima presa di posizione contro l’azione del governo Putin era stata presa senza essere stata consultata. In seconda battuta, il 29 gennaio, ha rallentato i lavori per giungere a un’estensione condivisa delle sanzioni. Alla fine la Grecia ha dovuto cedere, non senza lamentele, e le sanzioni sono portate fino a settembre 2015, ma già i meeting del 9 e 12 febbraio prossimo potrebbero arricchire il carnet di bersagli russi e ucraini.
L’instabilità della coesistenza europea di fronte all’annosa alternativa tra i legami economici con la Russia e l’Alleanza del Nord Atlantico, che oramai ha un sapore quasi di antico, è senza dubbio una parziale vittoria di Mosca, ma i suoi meriti contingenti attuali sono sovrastimati. La Grecia, ad esempio, ha solidi legami religiosi e culturali con la Russia, per non parlare degli accordi energetici con Gazprom e gli indubbie amicizie tra il principale campione dell’idea eurasiatica, Aleksandr Dugin, ed alcuni esponenti di Syriza, come l’intellettuale greco Nicolas Laos, con interessi economici in Russia. Il neo Ministro della Difesa stesso, Panos Kammenos, leader del partito dei “Greci Indipendenti”, fondatore del centro di studi “Institute of Geopolitical Studies”, a novembre 2014, aveva firmato un memorandum d’intesa con il Russian Institute for Strategic Studies (RISI), che ha fatto parte del servizio d’intelligence estero russo (SVR) fino al 2009, quando è stato posto sotto l’ufficio di presidenza. Anche il ministro degli esteri greco, Nikos Kotzias, quando era ancora professore all’università del Pireo, nell’aprile 2013, aveva invitato Dugin stesso a tenere una lectio magistralis.
La Russia, nonostante non dia segno di indecisione sul fronte ucraino, non può essere soddisfatta. Mosca ha speso circa 2,3 trilioni di rubli per puntellare la sua economia e non sembra che la creazione di una bad bank per contenere la propria tossicità finanziaria possa essere un’idea sostenibile. Le sessanta misure annunciate proprio a fine gennaio, di cui solo ventidue sostenibili al momento, non hanno esento il ministro dell’economia Anton Siliuanov dall’annunciare l’immissione di capitale fresco, circa 300 miliardi di rubli, da parte del fondo sovrano nazionale nella banca statale di sviluppo, Vnesheconombank.
La svalutazione del rublo, frutto anche delle controsanzioni russe, in particolare su determinati prodotti alimentari, il prezzo del greggio ora intorno ai 51$ al barile (Brent), Standard& Poor’s che ha declassato il debito russo quasi al livello “junk”, dopo il baa3 di Moody’s, dovrebbero rendere necessaria una contrazione del budget 2015 di circa il 10%, salvo il settore difesa, ovviamente. Visto che la spesa prevista si colloca in aumento del 12% rispetto al 2014, è lecito aspettarsi una spesa russa in linea con l’anno passato, seppur sotto gravi carichi. Ecco che le ottimistiche previsioni di crescita del PIL al 1,7% nel 2017 divengono, quasi scontatamente, un mesto 0%, o poco più, nel 2015, che potrebbe essere l’anno più lungo. (La Banca Mondiale invece valuta, al 12 gennaio 2015, un crollo tra lo 0,7 e il 2,9% e lo stesso Siliuanov ha parlato persino di un -4,8% in caso di persistente contrazione delle quotazioni del petrolio).
Al downgrade di Fitch nei confronti di Lukoil, Russian Railways e Gazprom, è seguito un intenso dibattito interno al Cremlino circa la bontà di salvare Rosneft, colosso petrolifero nazionale, gravato da circa 35 miliardi di dollari di debiti. Rosneft ha chiesto 40 miliardi per risanarsi ma sono molti, a Mosca, a desiderare che la società privatizzi e venda circa un 20% della compagnia per appianare i debiti. Il vertice di Rosneft, Igor Sechin, tuttavia, si oppone. Mentre il settore difesa si mette al riparo, con Sergei Chemezov, leader del colosso industriale Rostec e fido di Putin, che ha piazzato uno dei suoi collaboratori al vertice di United Aircraft Corp (che produce tra gli altri Sukhoi e Tupolev), creando una sorta di monopolio, oligarchi come Mikhail Fridman di Alfa Bank e Mikhail Prokhorov (patron dei Brooklyn Nets) vedono il proprio business ridotto al lumicini.
Tuttavia, la duplicità dell’azione europea nei confronti della Russia, ostilità geopolitica ma incertezza economica (laddove si può operare tra le parti, gli affari vanno ancora, come dimostra l’accordo del 22 gennaio tra Gazprom e Intesa San Paolo per un prestito di 350 milioni di euro; Gazprom è fuori sanzioni), dimostra che la partita delle sanzioni è solo un piccolo teatro di scontro nell’arco di crisi ben più complesso che contrappone Russia, Stati Uniti e i tentennanti europei.
Analyst presso IFI Advisory
Niente di nuovo sul fronte, in questo caso orientale. L’est ucraino è ancora sconvolto dai combattimenti tra i separatisti filo russi e le fragili forze di Kiev, mentre il porto di Mariupol ha subito un intenso lancio di razzi tra il 24 e il 26 gennaio scorso.