È a dir poco affascinante il modo in cui a volte la storia si contraddice. Nel momento in cui la peggiore crisi migratoria dall’epoca della Seconda Guerra Mondiale trascina l’Europa in una vergognosa deriva islamofobica, a Londra si celebra Sadiq Khan, il primo sindaco musulmano di una capitale occidentale. Meglio chiarire subito le cose, non si tratta del rampollo di qualche influente dinastia mediorientale con interessi a nove zeri nella City londinese.
Khan proviene da una famiglia di immigrati pachistani giunti in Inghilterra negli anni Sessanta, cresciuto in una casa popolare a Londra assieme a sei fratelli, al padre autista e alla madre sarta. Malgrado le umili origini ha avuto l’opportunità di studiare e diventare avvocato, lavorando a lungo nei diritti umani prima di intraprendere la carriera politica nel partito Laburista, ottenendo un incarico ministeriale durante il mandato di Gordon Brown (2007-2010). L’ingresso di Khan nell’ovale di vetro della City Hall avviene con una vittoria schiacciante ai danni del conservatore Zac Goldsmith, ottenuta grazie alle preferenze di 1,3 milioni di votanti, il miglior risultato elettorale di sempre per le amministrative londinesi. Ciò è accaduto malgrado una campagna senza esclusione di colpi, durante la quale il rivale Goldsmith, supportato dal premier David Cameron, ha puntato diritto sulle presunte relazioni tra il nuovo sindaco e personalità legate al fondamentalismo islamico, bissando un cliché mai come ora abusato in Europa, imperniato sulla facile associazione tra islam e fondamentalismo.
Un migrante musulmano manda l’islamofobia a tappeto
L’elezione di Khan è importante soprattutto in questo contesto, perché soffoca almeno in parte l’ondata di islamofobia che sta partorendo un muro dietro l’altro nel cuore dell’Europa. Gli elettori londinesi, non solo quelli musulmani (13% sul totale), hanno dimostrato come, oltre il dramma del radicalismo di alcune minoranze religiose e la minaccia del jihadismo, l’opzione dell’integrazione dei migranti non è una causa persa in partenza, ma un’opportunità. Non a caso l’ex avvocato di origini pachistane ha puntato sugli stessi opposti che oggi minano l’unità europea: apertura contro isolamento, integrazione contro scontro, opportunità per tutti contro razzismo e misoginia. E proprio l’integrazione è tra i temi più dibattuti da Khan in campagna elettorale, “troppi britannici musulmani crescono senza conoscere nessuno di un diverso background”, condizione essenziale per essere efficaci nella lotta al radicalismo di alcune minoranze musulmane particolarmente emarginate, a partire dai giovani migranti di seconda generazione dove sembra attecchire meglio l’utopia di Abu Bakr Al-Baghdadi e del suo Stato Islamico. Ciò accade a meno di due mesi dalla sottoscrizione dell’imbarazzante deal tra Unione Europea e Turchia sulla gestione dei migranti, seguito alla chiusura della Via dei Balcani, che nel 2015 ha rappresentato la porta di ingresso all’Europa per più di un milione di persone. Se da un lato gli accordi del 18 marzo con Ankara hanno sortito un effetto placebo per i governi europei più ‘accoglienti’, preoccupati dalla ripresa delle destre xenofobe entro i confini nazionali, il problema dell’integrazione è solo rimandato. In base all’intesa raggiunta con il premier dimissionario Davutoglu, a partire da giugno 75 milioni di cittadini turchi potranno venire in Europa senza dover più richiedere il visto. ‘Minaccia’ ai posti di lavoro europei a parte, l’apertura verso i passaporti turchi solleva dubbi anche in merito alla questione terrorismo. Non sono forse le forze di sicurezza turche ad aver vegliato sull’Autostrada del Jihad, concedendo il transito verso Raqqa, capitale dell’ISIS, a migliaia di foreign fighters, inclusi quelli europei? È lecito chiedersi se gli uomini del califfato potranno un giorno seguire il percorso inverso, magari sfruttando passaporti turchi e la collusione di agenti deviati?
“L’eccezione” di Trump
L’eco del voto di Londra è giunta immediatamente anche oltre oceano, scombinando almeno in parte i piani del candidato repubblicano Donald Trump, impegnato in una campagna elettorale basata sullo slogan “American First”, che promette il divieto di accesso ai musulmani senza cittadinanza. Il New York Times ha definito Khan come “l’anti Trump”, presentandolo come esempio dell’era moderna, segnata da molteplici identità racchiuse in “città che celebrano la diversità”. Nelle pagine del New Statesman, George Eaton ha commentato definendo “Khan una figura di rilevanza globale. La sua elezione è un colpo agli estremisti di ogni parte, da Donald Trump ad Abu Bakr Al-Baghdadi, i quali sostengono che le religioni non possono coesistere pacificamente”. In riferimento alle posizioni radicali del candidato premier americano, si è espresso anche Khan: “se Donald Trump diventasse presidente non potrei andare lì (negli Stati Uniti ndr) a causa del mio credo, il che significa che non potrei incontrarmi con i sindaci americani e condividere idee”. Affermazione cui Trump ha replicato assicurando indirettamente il benvenuto al sindaco di Londra, in quanto “ci saranno sempre eccezioni”, per aggiungere poi in riferimento a Khan “se facesse un buon lavoro sarebbe una cosa terribile”.
Una lezione al Pakistan
All’indomani dello spoglio elettorale, la vittoria di Sadiq Khan è stata celebrata diffusamente anche nella sua terra di origine, il Pakistan. Un Paese in cui tutti i principali partiti politici rappresentano qualcosa di simile ad un’impresa famigliare, si è preso la briga di esultare alla vittoria di un musulmano praticante di provenienza pachistana, quasi fosse la vittoria della nazionale di cricket. Nessuno o quasi, tantomeno i politici che inneggiano al successo in terra inglese, hanno perso tempo ad analizzare i principi di Khan, a partire dalla sua apertura verso il matrimonio gay. Posizione che in Pakistan avrebbe di certo comportato una condanna esemplare, così come previsto dalla legge sulla blasfemia. Lo stesso vale per l’accoglienza verso le minoranze religiose, mai come ora relegate ai margini della società, oggetto di soprusi e attacchi sistematici, e considerate inferiori alla maggioranza musulmana sunnita. Immaginare ad esempio un politico cristiano, o hindu, in corsa per le elezioni generali a Islamabad è tecnicamente impossibile. Sarebbe anti-costituzionale in quanto l’articolo 41 della costituzione vieta alle minoranze di essere eleggibili per la presidenza, mentre l’articolo 91 preclude la possibilità di diventare premier. Il Pakistan di oggi deve fare i conti con l’islamizzazione del Paese, l’assenza dello stato e infrastrutture, disuguaglianza economica e sociale, oltre alla corruzione endemica. Nelle stesse ore in cui Sadiq Khan, un pachistano musulmano figlio di immigrati diveniva il nuovo sindaco di Londra, a Karachi veniva freddato a colpi di arma da fuoco KhurramZaki, sciita, giornalista e attivista per i diritti umani, una delle voci più autorevoli contro l’estremismo sunnita dilagante in Pakistan.
È a dir poco affascinante il modo in cui a volte la storia si contraddice. Nel momento in cui la peggiore crisi migratoria dall’epoca della Seconda Guerra Mondiale trascina l’Europa in una vergognosa deriva islamofobica, a Londra si celebra Sadiq Khan, il primo sindaco musulmano di una capitale occidentale. Meglio chiarire subito le cose, non si tratta del rampollo di qualche influente dinastia mediorientale con interessi a nove zeri nella City londinese.