Le misure punitive di Trump in realtà colpiscono i cittadini comuni, fanno scappare le aziende straniere e rischiano di bloccare anche le importazioni di medicine e tecnologia. Intanto il governo si prepara a resistere alla guerra psicologica Usa, mentre strizza l’occhio alla Cina ed esorta l’Ue a fare di più
Nelle relazioni internazionali le sanzioni sono uno strumento punitivo, secondo alcuni dispositivo strategico a metà tra le dichiarazioni e i cosiddetti boots on the ground dei soldati. La politica estera del presidente americano Donald Trump con l’Iran finora si è sviluppata lungo due binari: minacce e sanzioni. L’8 maggio scorso gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo sul nucleare – il Joint Comprehensive Plan of Action, siglato il 14 luglio 2015 tra i Paesi del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, più la Germania), l’Unione europea e l’Iran [qui il testo, ndr]. Teheran ha sempre rispettato i termini dell’intesa, come certificato da undici report dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Eppure a Washington hanno ugualmente deciso di scatenare una doppia ondata di sanzioni contro la Repubblica islamica. Una prima tranche è entrata in vigore il 6 agosto 2018, mentre la seconda tornata è prevista per il 4 novembre.
I limiti di una politica punitivi: quali sono i settori colpiti
Imporre sanzioni significa de facto restringere il campo alle transazioni commerciali e bancarie, bloccare le esportazioni, rendere impossibile l’importazione di alcuni prodotti. Si tratta di misure punitive: in teoria strumento di pressione politica, in pratica mezzo di un’esibizione di potere volta a distruggere l’economia di un Paese, sfiancandone di conseguenza i cittadini. Il paradosso delle sanzioni, come dimostrano ampiamente diversi studi accademici, è che non funzionano e spesso il risultato ottenuto è di gran lunga peggiore della situazione di partenza.
Anche con l’Iran deal, gli Usa non avevano sospeso le cosiddette “sanzioni primarie” [qui maggiori dettagli, ndr]. Ciò significa che il 6 agosto sono scattate le cosiddette “sanzioni secondarie” che colpiscono:
- l’acquisto di dollari da parte dell’Iran, mentre la moneta iraniana (il rial) è in caduta da mesi, accelerando la resa dei conti interna all’apparato della Repubblica;
- i commerci in oro e metalli preziosi;
- gli scambi e le forniture riguardanti grafite, alluminio, acciaio, carbone e software per l’integrazione di processi industriali;
- le transazioni di acquisto e vendita di rial iraniani;
- l’acquisto o la sottoscrizione di debito sovrano iraniano;
- il settore automobilistico dell’Iran, come già spiegato su eastwest.eu.
Sono state, inoltre, revocate tutte le autorizzazioni che avevano consentito negli ultimi due anni l’importazione negli Stati Uniti di tappeti e generi alimentari di origine iraniana.
L’impatto reale delle sanzioni
La mossa di Trump si traduce in una perdita enorme per gli iraniani. In ballo, secondo i dati raccolti da Opec, Al Jazeera e Bloomberg, ci sono:
- 230 aerei, ovvero 39 miliardi e mezzo di dollari relativi ai contratti con Boeing, Airbus e ATR e quindi la sicurezza in volo;
- 424 milioni di dollari, provenienti dalle esportazioni di tappeti negli Stati Uniti;
- 96 mila tonnellate di pistacchi, per un valore di 852 milioni di dollari;
- 1 milione e mezzo di auto;
- 64.5 tonnellate d’oro.
Aziende come Total, Peugeot, Renault, Airbus, e Siemens saranno costrette a lasciare il mercato iraniano, insieme a tante società europee e italiane in particolare difficoltà, nonostante l’impegno e le rassicurazioni dell’Unione europea di fare “da scudo”, come dichiarato dall’Alto rappresentante degli affari esteri Ue, Federica Mogherini.
Inoltre, nonostante cibo e medicine non siano direttamente nella lista dei prodotti sanzionati, nei banchi dei supermercati e delle farmacie potrebbero mancare presto alcuni prodotti, come scarseggeranno alcune componenti elettroniche e parte della tecnologia che l’Iran importa anche per l’agricoltura. È ciò che è successo nella precedente tornata di sanzioni iniziata nel 2012 e che gli iraniani ricordano bene. L’invio di prodotti dall’estero sarà più complicato, come spiegato qui. Già sei anni fa, infatti, il blocco delle transazioni bancarie aveva azzoppato le importazioni e messo in seria difficoltà i malati di sclerosi multipla, di cancro e di altre persone bisognose di farmaci specifici non disponibili in territorio iraniano.
Teheran contro “la guerra psicologica” Usa tra apertura alla Cina ed economia di resistenza
Il presidente iraniano Hassan Rouhani, il 6 agosto in diretta tv, ha attaccato gli Stati Uniti parlando di «guerra psicologica» da parte di Trump. Poi ha aggiunto: «Siamo sempre a favore della diplomazia e dei colloqui … Ma i colloqui hanno bisogno di onestà … Gli Stati Uniti re-impongono sanzioni all’Iran e si ritirano dall’accordo nucleare, e poi vogliono discutere con noi».
Il punto, secondo Rouhani, è che «i negoziati con le sanzioni non hanno senso» visto che stanno colpendo «i bambini, i pazienti malati e tutti gli iraniani». Perché, ha continuato, «Se ti comporti da nemico e approcci l’altro con un coltello, ma poi dici di voler negoziare, allora la prima cosa che devi fare è rimuovere il coltello». Il presidente iraniano ha sottolineato che, attraverso le sanzioni, Trump sta di fatto costringendo le aziende straniere a lasciare l’Iran. E ancora: nonostante l’Europa ha lavorato in una buona prospettiva politica per preservare l’Iran deal, secondo Rouhani, ci sarebbe bisogno di fare di più. Teheran, ha continuato il presidente, «vuole buoni rapporti con tutti i Paesi» e in particolare «Cina, India e altri Paesi asiatici sono attualmente molto importanti» per l’Iran.
Pechino in particolare rappresenta un interlocutore e partner cruciale per Teheran. Infatti, a maggio, subito dopo la rottura di Trump e l’annuncio dell’uscita Usa dall’accordo sul nucleare, il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif era volato proprio in Cina, pronta a giocare il ruolo di “stabilizzatore” mentre cerca di allentare la pressione americana sulle transazioni commerciali.
La politica estera iraniana si è mossa e si muoverà in questa direzione di apertura verso Oriente ma anche verso Occidente, ha concluso Rouhani, che sta provando a ricompattare i suoi, nonostante le pressioni interne che fanno pensare al 2012, quando l’Iran soffriva sotto le sanzioni. Allora la Guida Suprema, Ali Khamenei, pronunciò un famoso discorso a Mashad: l’Iran deve lavorare per mantenere “un’economia di resistenza” – disse – ovvero incoraggiare l’industria nazionale, la produzione interna, gli investimenti. Oggi, però, molte cose sono cambiate e pesano anche le speranze tradite.
Il vero obiettivo di Trump: isolare Teheran e bloccare le esportazioni di petrolio
Il piano di Trump, intanto, non si ferma perché nella roadmap sono previste – dal 4 novembre, come già spiegato qui – altre sanzioni contro:
- gli operatori portuali e il settore della costruzione navale, comprese la Islamic Republic of Iran Shipping Lines (Irisl) e la South Shipping Line Iran;
- le transazioni relative al petrolio (quindi acquisto di petrolio e prodotti petroliferi provenienti dall’Iran). Ad essere duramente colpite, dunque: la National Iranian Oil Company (Nioc), Naftiran Intertrade Company (Nico), National Iranian Tanker Company (Nitc);
- le transazioni finanziarie con la Banca centrale dell’Iran;
- la fornitura di servizi assicurativi;
- il settore energetico dell’Iran.
Se Washington desse seguito alla minaccia di bloccare le esportazioni di petrolio di Teheran, davvero Teheran chiuderebbe lo stretto di Hormoz, cruciale per i transiti petroliferi del Golfo Persico, come ha dichiarato Rouhani a luglio? Probabilmente no, ma anche questa potrebbe essere una mossa negoziale in attesa del prossimo round.
@transit_star