La Scozia è una terra serpeggiante: serpeggiano le strade nella brughiera, serpeggiano i fiumi attraverso lande desolate, serpeggia Nessie nel suo loch, e in quest’ultimo serpeggia il “ch”. Egualmente strisciante è il malumore di alcuni per l’occasione persa al referendum del 2014.
Il referendum del 2014
Riassumendo, il 18 settembre 2014 gli Scozzesi furono chiamati alle urne per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o separarsene per formare uno Stato autonomo. L’affluenza fu enorme, con circa il 97% degli aventi diritto iscritto alle liste elettorali e oltre l’85% recatosi a votare per dire la propria su una domanda semplice all’apparenza, ma che in realtà cela un dilemma identitario: « Should Scotland be an independent country? ». Dei 3,6 milioni di voti, il 44,7 % fu a favore dell’indipendenza, mentre il restante 55,3% espresse la volontà di non tagliare i ponti con Londra. Se a Westminster in molti tirarono un respiro di sollievo, non fu così a Holyrood, sede del parlamento scozzese: l’allora primo ministro e segretario del fortemente indipendentista Scottish National Party, Alex Salmond, si dimise da entrambe le cariche, come aveva annunciato di fare in caso di vittoria del “No”.
Le ragioni di un sì
Laddove quel 18 settembre avesse vinto il “Sì”, l’indipendenza della Scozia sarebbe stata dichiarata il 24 marzo di quest’anno. E non tutti si sono arresi, come testimonia il miniaccampamento di sei tende, una roulette e un camper allestito in un prato a poche centinaia di metri dal parlamento di Edimburgo; gli accampati sono una ventina e sono lì dallo scorso novembre, intenzionati a tenere alta l’attenzione sulla causa indipendentista scozzese e incuranti dell’ingiunzione di sgombero emessa dal Parlamento stesso.
Le ragioni dell’indipendenza scozzese sono di vario tipo, da quelle storiche (l’unione politica con l’Inghilterra, che produsse un Regno Unito di Gran Bretagna, ha avuto luogo non prima del 1707) a quelle economiche (soprattutto vista la presenza di numerosi giacimenti di gas e petrolio al largo delle coste scozzesi), e il revival celtico-nazionalista ha riscosso un notevole successo soprattutto tra le giovani generazioni figlie di “Braveheart”. Due anni dopo, quindi, sono ancora in molti a credere che l’indipendenza sarebbe stata e sarebbe tuttora cosa buona e giusta. Lo scorso marzo il Guardian ha dedicato un articolo alla Scottish Resistance, un gruppo di partigiani per l’indipendenza che reputa lo Scottish National Party un covo di traditori; e sempre lo stesso giornale ha pubblicato le dichiarazioni di varie personalità scozzesi che hanno sottolineato come la piena sovranità comporterebbe solamente vantaggi, dalla tutela dell’ambiente alla gestione dell’economia, dalla sanità all’istruzione.
Un sogno (o un incubo) non ancora sopito
In realtà, ed è ancora il Guardian a riportarlo, la situazione sarebbe alquanto diversa, soprattutto dal punto di vista delle finanze pubbliche: uno studio condotto dall’Institue for Fiscal Studies rivela che una Scozia indipendente oggi dovrebbe affrontare un deficit di 10 miliardi di sterline. I lauti guadagni prospettati dagli indipendentisti nel 2014, infatti, si basavano su un petrolio allora intorno ai 115 dollari al barile, e non tenevano certo conto della caduta libera dei prezzi del greggio. Attualmente, Edimburgo ha un deficit pari al 9,4%, comparato al 2,9% del Regno Unito nel suo insieme; se la Scozia avesse dovuto fare i conti da sola in tale frangente, il collasso sarebbe stato pressoché inevitabile. Persino Alex Bell, consigliere politico di Salmond fino a luglio 2013, ha dichiarato che l’aspetto economico nella campagna dello Scottish National Party è stato sottovalutato: “L’errore dello SNP non è stato il sostenere l’indipendenza; ciò è ancora possibile, a patto che si accetti di tirare la cinghia come un prezzo da pagare per la sovranità. L’errore è stato promettere anche il benessere economico”.
Ciononostante, lo SNP non si è arreso, e Nicola Sturgeon, segretaria del partito nonché primo ministro scozzese, si era detta intenzionata a riprendere la campagna per l’indipendenza, tentando di convincere quelli che due anni fa votarono “no”; questo prima del risultao delle elezioni parlamentari.
Una vittoria di Pirro?
Sturgeon la battagliera, tutavia, deve fare i conti l’ambigua vittoria alle elezioni del 5 maggio scorso. Pur uscendo vincitore dalle urne, infatti, lo Scottish National Party non ha ottenuto i 65 parlamentari necessari al mantenimento della maggioranza a Holyrood. Dal canto suo, l’emorragia di voti avviatasi dopo il referendum sull’indipendenza ha interessato ancora i laburisti, storicamente forti in Scozia, i quali sono stati superati dai conservatori. A bocce ferme, quindi, l’SNP è il primo partito con 63 seggi (6 in meno rispetto al 2011), i conservatori si sono accaparrati 31 seggi (+16), i laburisti 24 (-13), i verdi 6 (+4) e i libealdemocratici 5 (risultato immutato rispetto al 2011).
La prima elezione legislativa in cui hanno votato sedicenni e diciassettenni (una strizzata d’occhio ai giovani filoindipendentisti in vista di una futuribile consultazione popolare?) si è rivelata quindi una vittoria mutilata per l’SPN, e non un trionfo di larga misura che avrebbe dato nuova linfa vitale alla campagna referendaria.
Brexit in fabula
Al monento, la grande incognita che grava su tutto il Regno Unito è il miraggio “Brexit“, ovvero l’uscita del Paese dall’Unione Europea. Secondo il Financial Times, il fronte antieuropeista, guidato dall’istrionico sindaco di Londra Boris Johnson, si assesta al 41%, cinque punti dietro al campo pro-Bruxelles capeggiato dal premier David Cameron; ciononostante, un 16% di elettori indecisi rende qualsiasi pronostico prematuro. Per quanto riguarda la Scozia, i sondaggi rivelano che i suoi 5,3 milioni di abitanti sono decisamente più europeisti del resto dei Britannici, specialmente dei 53 milioni di Inglesi. Lo scenario di un Regno Unito che opta per l’uscita dall’UE a fronte di una maggioranza anti-Brexit in Scozia appare plausibile, e potrebbe gonfiare nuovamente le vele del nazionalismo scozzese ed eventualmente condurre a un nuovo referendum per la sovranità di Edimburgo, questa volta coronato dal successo. Non si può infatti dimenticare che la campagna “unionista” nel 2014 aveva nella permanenza britannica all’interno dell’UE uno dei propri cavalli di battaglia.
Le ragioni che fanno temere alla Scozia un’uscita dall’Unione Europea sono presto dette. Benché il Regno Unito sia la seconda economia europea dopo la Germania, alcune delle sue aree più remote o economicamente sottosviluppate beneficiano di consistenti fondi provenienti da Bruxelles, e in questo quadro la Scozia ne riceve proporzionalmente in quantità maggiore rispetto alla più benestante Inghilterra.
In conclusione, le maggiori incognite per i disegni autonomisti di Edimburgo sono gli sviluppi all’interno del parlamento di Holyrood il referendum sul “Brexit” del 23 giugno prossimo. Nel frattempo, nei cieli di Scozia la croce di Sant’Andrea sventola ancora accanto alla Union Jack; per quanto, nessuno può dirlo con certezza.
La Scozia è una terra serpeggiante: serpeggiano le strade nella brughiera, serpeggiano i fiumi attraverso lande desolate, serpeggia Nessie nel suo loch, e in quest’ultimo serpeggia il “ch”. Egualmente strisciante è il malumore di alcuni per l’occasione persa al referendum del 2014.