
Il Financial Times ha ricordato recentemente alcuni fatti, storici, cinesi: a metà degli anni 90 Jiang Zemin fece arrestare l’allora boss del Partito di Pechino, Chen Xitong, nel 2006 Hu Jintao fece fuori l’allora capo del Partito di Shanghai, Chen Liangyu, poi condannato a 18 anni.
Rileggendo anni dopo questi eventi, si può sostenere come Jiang Zemin volesse ricordare chi stava comandando al gruppo di potere che si era raccolto intorno alla figura di Deng Xiaoping, mentre Hu Jintao – decapitando il Partito a Shanghai – avrebbe avvisato proprio Jiang Zemin, considerato il capo della «banda di Shanghai».
Oggi, si chiede, il Financial Times, chi è dunque l’obiettivo della campagna anti corruzione di Xi Jinping e quanto si discosta da quelle precedenti? I motivi alla base di purghe effettuate in nome della «lotta alla corruzione» sembrerebbero rappresentare le «campagne» soprattutto come un buon modo per eliminare i propri avversari politici e contemporaneamente legittimare il PCC agli occhi del popolo.
Benché le condizioni durante le quali avvennero le campagne di Jiang Zemin e Hu Jintao, fossero molto diverse da quelle odierne, potremmo in effetti sostenere che poco è cambiato. La politica cinese gira da sempre intorno a gruppi di potere che non solo si spartiscono gli incarichi politici, ma che soprattutto si dividono importanti «ruoli economici». Ed ecco che le lotte interne non sono più il risultato della divergenza politica tra fazioni, bensì ormai una vera e propria guerra economica, per gestire quei campi molto redditizi, una volta mutato il contesto politico. E le piramidi di comando, gli intrecci finanziari sono evoluti a tal punto da rendere difficile una lettura in chiaro di quanto accade.

E quindi: la campagna di Xi Jinping è davvero una lotta senza quartiere alla corruzione o punta a qualcosa di ben più preciso? E’ ancora presto per dirlo, perché nei giorni scorsi era parso chiaro che l’attuale leadership – e con esso il gruppo di funzionari ancorati a Xi Jinping, di cui scopriremo in futuro le sembianze e le caratteristiche – sembra puntare decisa sulla cosiddetta «gang del petrolio». L’inchiesta su Jiang Jiemin, ex direttore della Commissione di Supervisione e Amministrazione delle Imprese di Stato (Sasac) ma soprattutto ex presidente della più grande compagnia petrolifera del Paese, la China National Petroleum Corporation (Cnpc), un uomo di Zhou Yongkang, considerato «il signore del petrolio» in Cina nonché alleato storico di Bo Xilai (nella foto sono insieme), sembrerebbe indicare proprio questa volontà.
Zhou, cresciuto e divenuto politico rilevante proprio grazie al suo incontrastato dominio nella gestione del petrolio cinese, inizialmente era dato sotto inchiesta, poi addirittura agli arresti domiciliari, ora invece è considerato una sorta di «testimone chiave» in un’indagine per corruzione. La cosa impressionante è che potrebbero essere vere tutte e tre le voci; se la notizia di Zhou testimone fosse vera, per altro, significherebbe anche un nuovo giro di vite in termini di alleanze.
Come nelle migliori lezioni di giornalismo, per capire la Cina ora, anziché il celebre «segui il denaro», motto dei giornalisti che portarono alla luce lo scandalo Watergate, potremmo sostenere la necessità di «seguire il petrolio», per orientarci nello strambo e attuale periodo di politica interna cinese. A novembre ci sarà il tradizionale incontro del Comitato Permanente e per allora, alcuni giochi, potrebbero essere conclusi.