Una sentenza in Cina riporta di moda il dibattito sui laojiao, i campi di lavoro; più di un anno fa, anche l’Italia ne fece la scoperta. Peccato che la l’informazione al riguardo venne macchiata da alcune inesattezze, nella fattispecie riportate da Roberto Saviano durante la trasmissione Rai «Quello (che) non». Oltre a raccontare di un paese che oggi non c’è più (nel quale a detta di Saviano si finisce nei campi di lavoro se si professa una religione o se si partorisce un secondo figlio) Saviano si concentrò sui cosiddetti laogai, raccontando la Cina di oggi sotto un’angolazione completamente errata.

I laogai, i campi di rieducazione dove vennero messi – senza alcuno scrupolo – nemici politici e dove vite vennero rovinate quando non spazzate completamente via, un vero e proprio obbrobrio storico, non esistono più. E’ dal 1997 che sono stati eliminati. Questo non significa che non esista qualcosa di simile, ma come al solito, la realtà è più complessa di un sermone in prima serata.
I laojiao però non sono i laogai, ovvero i campi di lavoro forzati in cui venivano rinchiuse persone condannate penalmente. I laojiao, infatti, ricevono le persone condannate in via amministrativa o senza processo e sono ad oggi pieni di piccoli delinquenti, prostitute o semplici cittadini colpevoli solo di avere commesso un «errore», magari provando a denunciare il funzionario sbagliato. Si tratta – naturalmente – di un’istituzione fastidiosa. E’ uno scandalo che un paese come la Cina ancora oggi abbia questa istituzione, che fatto è un sopruso autoritario, per altro ben poco regolamentato dall’arretrato sistema giudiziario cinese. «Nella maggioranza dei casi – ha scritto in Crime, punishment and policing in China (2008) Borge Bakken dell’università di Hong Kong – i condannati sono posti nei campi di lavoro dalla polizia, senza neanche processo. L’amministrazione detentiva può durare fino a quattro anni”.
Contrariamente a quanto si pensi, e a quanto aveva raccontato Saviano, in Cina si discute molto più di quanto non accada in Italia, dove ci si perde dietro la rima dichiarazione ad effetto di un qualsiasi politico, e da tempo il laojiao è sotto la lente di attenzione di un dibattito che ne chiede apertamente l’abolizione. Recentemente un magazine, Lens, ha fatto uscire un reportage molto intenso sulle vittime di un laojiao e la stessa leadership si era detta disponibile a ripensare l’istituzione.
E in questi giorni un evento di cronaca ha fatto ritornare d’attualità il dibattito. Si tratta di una notizia che molti media internazionali hanno ripreso, perché è un avvenimento che potrebbe avere importanti ripercussioni. La storia coinvolge una donna, Tang Hui, nella foto, che l’anno scorso è stata condannata a diciotto mesi in un campo di lavoro.
La ragione? Aveva fatto una petizione in cui chiedeva pene severe per gli uomini che avevano rapito, violentato e obbligato a prostituirsi sua figlia di undici anni. All’epoca il caso divenne famoso in tutta la Cina e soprattutto sul web si aprirono discussioni e critiche agli organi giudiziari, di fronte ad un caso terribile.
Come racconta il Guardian, «lo scorso mese di gennaio, Tang ha citato in giudizio la Commissione del lavoro della città di Yongzhou chiedendo le scuse e un risarcimento, ma la causa è stata respinta quattro mesi dopo. Ha poi fatto appello al tribunale provinciale».
E ieri il giudice ha ordinato alla Commissione del lavoro di pagare a Tang 2941 RMB (circa 350 euro) per aver violato la sua libertà personale e per averle causato danni mentali, second quanto riferito dagli avvocati di Tang.
La sentenza è risultata importante, perché ad ora ha consentito di ritornare a parlare di laojiao e della necessità di una sua riforma, se proprio non sarà possibile una sua abolizione.