Il 12 marzo del 2003 il premier serbo Zoran Djindjic veniva ucciso a Belgrado. Quindici anni dopo, i suoi Democratici sono stati cancellati dagli elettori. E il percorso democratico – liberale che la Serbia aveva iniziato con lui si è arenato sotto la guida del nuovo vozhd Vucic
Belgrado – Sono passati quindici anni dall’assassinio del premier serbo Zoran Djindjic e dopo il misero 2% alle elezioni di Belgrado del partito di cui fu a capo, ci si chiede quale sia l’eredità lasciata dal leader dei Democratici serbi.
Il Partito Democratico aveva preso parte all’assemblea capitolina sin dal 1997, quando in pieno regime Milosevic ci fu la storica elezione a sindaco proprio di Zoran Djindjic. Sembrò l’inizio del cambiamento.
Oggi invece la vittoria schiacciante del Partito Progressista consegna anche la capitale nelle mani del presidente Aleksandar Vucic, in una Serbia che sembra aver dimenticato il percorso verso la democrazia liberale iniziato con Djindjic e che pare sempre più vicina a un nuovo regime autocratico.
La Serbia di oggi si interroga sul proprio futuro e lo fa, come spesso accade nei Balcani, guardando al passato. Guardando a quel 5 ottobre del 2000, quando un milione di persone si riunirono davanti al parlamento serbo per chiedere le dimissioni di Milosevic, accusato di aver falsato le elezioni. Quando durante i notiziari nazionali si battevano all’unisono i mestoli sulle pentole, per non sentire quel che propagandava la Tv di regime.
Alla fine, vinse la volontà popolare, irrompendo nel parlamento e dandolo alle fiamme. Milosevic riconobbe la sconfitta con la storia e la vittoria elettorale dell’Opposizione democratica serba (Dos) – una moltitudine variegata di partiti, uniti dall’obiettivo di sovvertire l’ordine politico. Il loro leader, Zoran Djindjic, divenne primo ministro. Il primo dopo la fine del comunismo scelto da un’assemblea eletta democraticamente.
Eppure, l’euforia democratica durò poco. L’assassinio del premier, il 12 marzo 2003, gettò il Paese, ancora una volta, nell’incertezza. Dopo dieci anni di guerre, sanzioni economiche, restrizioni energetiche, la più alta inflazione della storia europea, le code per il pane e i bombardamenti della Nato, il popolo serbo perse ancora una volta la speranza. Già, perché come testimonia chi partecipò alla rivoluzione del 5 ottobre, l’impressione era che il governo Djindjic stesse veramente dando un seguito politico alla presa del parlamento.
Nei successivi dieci anni, il Partito Democratico si alternerà con il Partito Radicale alla guida del Paese, per poi iniziare il proprio declino a favore del Partito Progressista, che oggi si è appropriato di quel processo di modernizzazione e europeizzazione della Serbia iniziato proprio da Djindjic.
Ma come è possibile che il partito che tanto contribuì alla resistenza politica contro il regime di Milosevic, sia finito così in basso? Le ragioni sono tante, ma la principale è individuabile nell’eccessivo frazionamento che da sempre caratterizza la politca in Serbia.
Così come Dos, che all’indomani del 5 ottobre si sfaldò per i capricci interni alla coalizione, anche il Partito Democratico di oggi ne è una dimostrazione esemplare.
E l’elettorato dell’opposizione accusa proprio loro per l’ascesa del Partito Progressista. Questi nacquero nel 2008 come scissione dai radicali di Seselj. Una frattura che inizialmente andò a beneficio politico dei Democratici, dato che all’epoca i radicali erano il principale partito d’opposizione. Contemporaneamente, però, l’allora presidente Boris Tadic promosse la riconciliazione con il Partito Socialista di Ivica Dacic, delfino di Milosevic. Una mossa che molti elettori non gradirono e che alle elezioni presidenziali del 2012 punirono con il classico esempio di “dispetto serbo”: un altissimo numero di schede bianche che andò a tutto beneficio dello sfidante Tomislav Nikolic, che batterà Tadic al ballottaggio.
Dal 2012, quindi, con il sodalizio tra progressisti e socialisti che dura tutt’oggi, inizia il declino dei Democratici. Oltre al danno la beffa – viene da dire – se si pensa che la prospettiva di integrazione europea, da sempre cavallo di battaglia del Partito Democratico, è diventata uno dei punti cardine della nuova coalizione di governo. Un paradossale capovolgimento di potere che in Serbia viene spesso paragonato alla ritorsione del mostro di Frankenstein contro il suo creatore. E anche per questo motivo, l’elettorato sembra aver voltato le spalle agli eredi di Djindjic.
La caduta dei Democratici e l’ascesa dei progressisti sono dunque due fenomeni della politica serba tra loro inversamente proporzionali: al graduale fallimento dei primi è corrisposta la scalata al potere dei secondi.
Le speranze che sembravano prendere forma sotto la guida di Djindic sono ormai un ricordo sbiadito, a cui la Belgrado di oggi non ha dedicato nemmeno un monumento. Oggi, come sempre negli ultimi quindici anni, il Partito Democratico sfilerà per Belgrado fino a raggiungere la tomba di Zoran. Ma l’impressione è che i suoi sforzi per migliorare il Paese giacciano sottoterra, insieme a lui.
Per quanto molti analisti e media ricorrano spesso al parallelo tra il regime di Milosevic e quello dell’attuale presidente Vucic, infatti, i partiti dell’opposizione serba di oggi sono incapaci di emulare quanto fecero i loro omologhi negli anni novanta. E a proposito di tale incapacità, rieccheggiano profeticamente le parole dello stesso Djindjic: «Non esiste un risultato che sia positivo per il Partito Democratico se non lo è anche per tutta la Serbia».
@Gio_Fruscione
Il 12 marzo del 2003 il premier serbo Zoran Djindjic veniva ucciso a Belgrado. Quindici anni dopo, i suoi Democratici sono stati cancellati dagli elettori. E il percorso democratico – liberale che la Serbia aveva iniziato con lui si è arenato sotto la guida del nuovo vozhd Vucic