Dietro lo scontro politico, i conti della secessione. Dalla moneta al debito, ce la può fare la Repubblica Catalana? Le grandi banche la bocciano, ma la vitalità dell’industria può darle una chance. Ecco cosa possono aspettarsi cittadini e imprese se la Catalogna dice “sì”.
A dieci giorni dalla data del referendum catalano per l’indipendenza, lo scontro tra Madrid e Barcellona si è incattivito. Dopo la sentenza della Corte Suprema che ha bocciato la consultazione, il potere centrale schiera la Guardia Civil. Ieri i gendarmi hanno perquisito gli uffici della Generalitat e arrestato quattordici esponenti e funzionari del governo regionale. Allo scontro istituzionale si sovrappone così un pericoloso braccio di ferro tra le piazze gonfie di manifestanti e un governo che si mostra pronto a intervenire manu militari per bloccare il voto. E dietro lo scontro politico e istituzionale, si svolge un’altra delicata battaglia: quella attorno alla sostenibilità economica della secessione. Può farcela da sola la Repubblica catalana? E come? Domanda che si porta appresso un grappolo di questioni aperte, dalla moneta (sarà l’Euro?) al debito. “La Catalogna continuerà ad essere un’economia aperta come lo è stata finora”, rassicura il Delegato del Governo della Catalogna in Italia, dottor Luca Bellizzi. La relativa calma dei mercati può far pensare che gli agenti economici siano convinti che il referendum non si svolgerà, o che comunque non porterà a una spaccatura. O forse il mondo imprenditoriale e finanziario ha già preparato i suoi piani in caso di rottura. Del resto, di scenari economici dopo una secessione si discute da anni e concretamente dall’inizio della Grande Recessione. Perché è stata la crisi a dare la spinta decisiva all’indipendentismo, una istanza politica che risale a tre secoli fa.
Il 2008 è l’anno dello shock e della verità. La Spagna e le sue regioni avevano vissuto in un delirio di sovrabbondanza di liquidità. “Le misure del governo [Rajoy, presidente già allora, ndr] passano buona parte del peso dell’austerità ai governi regionali e locali”, scriveva allora un gruppo di accademici catalani catalani e non catalani del Collectiu Emma, la cui missione è informare sulla Catalonia all’estero. “Stiamo già assistendo agli effetti dannosi sulla vita dei cittadini e prevediamo reazioni di rabbia“, avvertivano. A Madrid nascerà poi Podemos mentre in Catalogna si riattizzano i vecchi risentimenti per “le misure a tappeto che non distinguono tra le comunità virtuose e non”. I catalani sopportano l’austerità e la disoccupazione pagandosi da soli i servizi e contribuiscono anche al fisco dello Stato che usa parte di questi contributi per sostenere regioni che vivono “alquanto regalmente in alcuni casi”. La Catalogna non è senza peccato, ammettevano gli studiosi, ma la sua robusta economia supererebbe la crisi “se disponesse direttamente dei ricavi che genera”.
Oggi la Catalogna è tornata ai livelli pre-crisi, genera il 19% del Pil spagnolo, esporta il 30% dell’export nazionale e contribuisce al 20% delle entrate fiscali – che lo Stato compensa con un 14% della spesa generale. Tradotto in linguaggio comune: “La Spagna ci deruba”. “Non è corretto metterla così”, dice il delegato della Generalitat a Madrid Ferran Mascarell in una intervista al El País, “il problema è che lo Stato spagnolo per inefficienza non ha saputo trarre profitto della solidarietà della Catalogna e, anzi, ha usato le sue proteste per trasformarla in un capro espiatorio”.
Visti dal resto della Spagna, i catalani sognano; visti dalla Catalogna sono stati ben desti. Poco dopo la crisi, un esperto di finanza mi diede un libro in inglese il cui titolo allora sembrava un po’ ambizioso: Catalogna, un’economia emergente: Pubblicato con il Catalan Observatory della London School of Economics, spiegava “il miracolo dell’export catalano che nel 2001, solo 15 anni dopo l’entrata nel mercato comune, esportavala cifra record di 36 miliardi di euro (65 nel 2016), superando giganti seppur in crisi come Turchia o Argentina.
Senza zone fertili e risorse naturali, il merito dell’exploit va a un’industria molto dinamica, per metà pmi e per metà multinazionali. Queste ultime sono passate da 3000 nel 2006 a 6000 oggi su un totale di 606.512 imprese – con un rapporto di imprese per abitante uguale a quello della Lombardia.
Vorranno restare in un Paese diverso da quello scelto? Nel 2017 se ne sono andate 222 ma, precisa il report della banca Bbva, alcune lo hanno fatto inseguendo benefici fiscali. Ne sono arrivate188. E il gigante del retail online Amazon è pronto ad aprire vicino a Barcellona il suo centro logistico più grande per il Sud Europa, e questo, “nonostante il ‘processo’ e le tensioni politiche”, sottolinea il Delegato del Govern per l’Italia.
Gli esempi della cultura industriale catalana sono tanti. Negli anni ‘80 la Volkswagen installò a nord di Barcellona una fabbrica di automobili che moltiplicò i numeri della produzione e dell’export catalano. Per abbassare i costi, nel 2001 una parte della produzione della Seat Ibiza fu trasferita a Bratislava, salvo farla rientrare tre anni più tardi – non a causa della produttività, che era più alta in Slovacchia, ma dell’indotto che non era in grado di fornire componenti della qualità richiesta con puntualità.
L’export richiede però normative certe e una valuta. “Le imprese europee che importano o esportano in Catalogna avranno tutto l’interesse che essa rimanga nella Ue”, spiega Bellizzi, “e lo stesso vale per le banche tedesche che detengono buona parte del debito pubblico spagnolo. Saranno questi interessi a mobilitare i partner europei a sollecitare il governo spagnolo per un risultato negoziato del 1° ottobre. Il muro contro muro non giova alla Catalogna, ovviamente, ma neanche alla Spagna o alla Ue. L’Unione ci ha abituato a decisioni molto pratiche, su problemi pratici”.
La Catalogna potrebbe continuare a usare l’euro anche senza il consenso della Ue, come fanno Kosovo e Montenegro. “Nessun agente economico in Europa o nel mondo ha interesse a che la Catalogna lasci l’euro”, sostiene l’economista David Ros. membro del Collegio degli economisti della Catalogna. “Alla Bce servirebbe poco più che modificare un codice postale – ed è suo interesse, farlo come lo è della Ue – per mantenere l’unità del mercato europeo, il sistema unificato di pagamenti, la supervisione delle banche sistemiche, garantire la liquidità…“.
Per la liquidità il Govern dipende pesantemente dal governo centrale. Con un debito del 319% sul Pil, deve pagare interessi e la spesa corrente. Per il 2017 l’Amministrazione catalana potrebbe farcela, il 2018 sarebbe un anno più difficile.
Per questo e per la tensione politica, le agenzie di rating la stanno punendo con una prospettiva negativa. E qualche banca importante come JPMorgan raccomanda di vendere le obbligazioni catalane. “Il mercato attribuisce zero probabilità a una secessione”, secondo un fondo d’investimento, “anche perché siamo uniti dal debito. Si può dire ai detentori di obbligazioni che una parte la pagherà la Spagna l’altra la Catalogna? È impossibile”.
“Ci sono precedenti di negoziati per distribuire il debito tra territori che si separano”, controbatte a distanza Ros, “come la Jugoslavia o la Russia dopo l’Urss. Si fa a partire dalla convenzione di Vienna del 1983 negoziando con arbitri come il Fondo monetario internazionale, la Bce, la Ue…”.
La sopravvivenza finanziaria potrebbe garantirla la crescita. Secondo il report del Bbva, nel 2016 la Catalogna è cresciuta del 3,5%, sopra la media spagnola, e per il 2017 prevede un 3,5-4% nonostante l’instabilità politica, con un tasso di disoccupazione inferiore e un reddito pro capite più alto (del 19, 6%) rispetto alla media spagnola. È anche la comunità autonoma con la più alta spesa pubblica – una voce è proprio la rete di delegazioni del governo all’estero, come quella a Roma, in altri paesi europei e negli USA e uffici commerciali in tutti i continenti. Ma i risultati si vedono. L’amministrazione è stata abile nello sfruttare con lungimiranza ed efficacia l’ingresso nella Ue e i nuovi fondi a disposizione. Un esempio sono le Olimpiadi del 1992 a Barcellona – tra le uniche tre proficue dal 1936 – usate come catalizzatore per obiettivi di sviluppo economico e profonda rigenerazione urbana. Con 10 miliardi di euro la città fu rimessa a nuovo nelle infrastrutture e fin nei quartieri popolari, il che a sua volta portò a un raddoppio del turismo, oggi il 15% del Pil catalano.
I catalani sono solo dei sognatori o realizzano i loro sogni? “La Catalogna sta facendo sforzi enormi nei settori ricerca, biotecnologie, biomedicina, formazione, auto, alimentare”, conclude l’economista David Ros. “Il giorno in cui questo modello sarà gestito da uno stato imprenditore che lo incentrerà su una produttività derivata dalla ricerca e dal talento, i profitti delle imprese non deriveranno più dai bassi salari ma dall’efficienza del sistema. La Catalogna può diventare la Danimarca del Mediterraneo”.
@GuiomarParada
Dietro lo scontro politico, i conti della secessione. Dalla moneta al debito, ce la può fare la Repubblica Catalana? Le grandi banche la bocciano, ma la vitalità dell’industria può darle una chance. Ecco cosa possono aspettarsi cittadini e imprese se la Catalogna dice “sì”.