La notizia della settimana dall’India è la strage di fedeli hindu in Madhya Pradesh: 115 persone morte schiacciate dalla folla o cadute nel fiume – conteggio provvisorio – durante una festa religiosa in un tempio. E a me viene da pensare alle elezioni.

Provo a spiegarmi, rischio cinismo altissimo. La pantomima della tragedia, le telecamere che indugiano sui cadaveri dei poveri indiani schiacciati dalla follia sono uno spettacolo odioso che si ripete a scadenza fissa. La follia di morire calpestati in India è molto ricorrente, come nel caso del mob effect in Uttar Pradesh, qualche mese fa. In un articolo sulle morti del tempio di Ratangarh l’Hindustan Times ha pubblicato una timeline degli ultimi episodi simili occorsi in India in tempi recenti. La incollo qui sotto, ad esemplificare la “normalità” della tragedia.

Le Temple Tragedies hanno il potere di far emergere prepotentemente sui media nostrani anche quella parte di India meno appetibile considerando il mito del paese in via di sviluppo – la Shining India – alimentando il voyeurismo di lettori un giorno immersi nei corridoi della Bangalore hi-tech e quello seguente catapultati nella morte polverosa lungo la strada verso il tempio.
Quello che quei corpi non raccontano, però, è la vita prima della tragedia. Le centinaia di migliaia di fedeli affrontano spesso viaggi in condizioni disumane. Di ritorno da un raduno religioso (definizione impropria, in hindi usano il termine mela, più o meno festa, evento) ricordo di aver fissato incredulo la ressa di fedeli davanti al vagone del treno della classe ancora inferiore a general – quella coi seggiolini in legno – dove all’apertura del portellone la carrozza era completamente vuota, senza alcun posto dove sedersi: la gente lottava per posizionarsi vicino ai finestrini, così durante il viaggio della durata di almeno 13 ore avrebbero respirato senza fatica. Gli altri, schiacciati in mezzo al vagone, si sarebbero arrangiati.
Nella vita di quelle persone – tantissime, probabilmente la maggioranza della popolazione – i mela rappresentano l’uscita dalla routine giornaliera, il grande evento per il quale, con la giustificazione sociale del pellegrinaggio, si può e si deve muoversi, viaggiare, vedere altri posti e allargare il proprio orizzonte, avvicinandosi a un’istituzione che si mostra sempre aperta all’accoglienza – ai mela i pasti sono gratis, offerti dall’organizzazione – e ad ascoltare le preghiere.
I mela sono uno dei pochi momenti in cui le due Indie si incontrano. Nella devozione, almeno formalmente, il contadino e il businessman sono sullo stesso piano. Uno dorme per terra, l’altro in una delle camere in affitto climatizzate che sorgono come funghi nei paraggi delle località di pellegrinaggio, ma quando si fa la fila per visitare la murti, l’idolo che rappresenta la divinità nei templi hindu, si è tutti uguali, tutti fedeli.
Quest’idea di uguaglianza dovrebbe essere ribaltata anche nel processo democratico, quando tutti gli indiani si recano alle urne indistintamente, accostandosi ad un’altra istituzione che si presenta come accogliente e aperta ad ascoltare le preghiere: la politica.
Il fatto che in India si continui a morire in questo modo assurdo, rinnovando ogni volta gli impegni a migliorare la gestione delle folle e l’organizzazione degli eventi religiosi di massa, la dice lunga sulla considerazione che le autorità hanno di quelle vite nei treni e su quanta strada ci sia ancora da fare in tutto il paese prima di poter anche solo immaginare slogan fallaci come Shining India.
La notizia della settimana dall’India è la strage di fedeli hindu in Madhya Pradesh: 115 persone morte schiacciate dalla folla o cadute nel fiume – conteggio provvisorio – durante una festa religiosa in un tempio. E a me viene da pensare alle elezioni.