In Siria tutto cominciò a Daraa, marzo 2011, quando un gruppo di ragazzini scrisse alcuni graffiti sul muro di una scuola. «Il popolo vuole rovesciare il regime». Oppure: «È il tuo turno, dottore», in riferimento alla laurea in oftalmologia di Bashar al Assad.

I responsabili vennero arrestati, e fu l’innesco della protesta: dopo qualche giorno in tutto il Paese migliaia di persone scesero in piazza, in un momento in cui tutto, nel mondo arabo, pareva possibile. Via Ben Ali dalla Tunisia, in carcere l’egiziano Mubarak, insomma uno status quo decennale sembrava cedere di schianto.
Il seguito, in Siria, è noto: una guerra civile dalla contabilità tanto incerta quanto agghiacciante (oltre i 210.000 morti, questo è sicuro), l’ascesa dello Stato Islamico, i bombardamenti della coalizione a guida americana.
Ora si torna a Daraa, sostiene Noah Bonsey, analista dell’International Crisis Group, esperto dell’area. Sì, perché mentre gli uomini di al Baghdadi avanzano a Nord, nel Sud la cosiddetta opposizione “moderata” ha ottenuto vittorie significative: «Negli ultimi mesi i ribelli hanno realizzato una serie di conquiste territoriali piuttosto notevoli, nell’area di Daraa e in quella di Queneitra. A Daraa stanno riuscendo nell’obiettivo di tagliare l’unica linea di rifornimento rimasta attiva per il regime, a Quneitra hanno stabilito il loro controllo sulla maggior parte del confine con il Golan, occupato da Israele. Inoltre, hanno fatto progressi molto significativi in direzione della parte occidentale di Ghouta, alla periferia di Damasco. Ma la cosa più importante è un’altra. La maggior parte di queste conquiste è stata ottenuta dalle fazioni che abbiamo definito moderate. In quest’area della Siria lo Stato Islamico non ha alcun ruolo e anche i qaedisti di Jabhat al Nusra sono molto più deboli che altrove, ad esempio nella zona di Idlib. Purtroppo i media, generalmente, non ne parlano, perché tutta la loro attenzione va al Califfato”.
Scarsa è anche la copertura mediatica della grande controffensiva lanciata dal regime, sostenuto dai suoi alleati, l’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah. Un’azione su larga scala, in cui, per la prima volta, Damasco ha ammesso la cooperazione con forze straniere. Secondo il britannico Osservatorio per i Diritti Umani, sarebbero 5.000 i miliziani di Hezbollah in Siria. Prosegue Noah: «Assad non può permettere che i ribelli facciano ulteriori conquiste, così ha dovuto fare appello agli specialisti iraniani e ai combattenti libanesi, in maniera più ingente di prima, allo scopo di raggiungere un triplice obiettivo: rafforzare le proprie posizioni intorno alla capitale, proteggere i rifornimenti a Daraa e guadagnare terreno nell’area del Golan».
La tattica dei moderati, e dei loro “padrini”, sembra essere questa: concentrarsi sul Sud della Siria, evitando il ginepraio del Nord. Secondo Jennifer Cafarella, studiosa dell’americano Institute for the Study of War, gli Stati Uniti hanno cambiato strategia: la Cia avrebbe deciso di tagliare salari e forniture per i gruppi che operano al confine con Turchia e Iraq, spostando risorse verso quelli che combattono nelle aree vicine ad Israele ed alla Giordania. Bonsey conferma: «Negli ultimi mesi nel Nord della Siria i moderati hanno perso consistenza, oltre che territori. A Sud, invece, le conquiste sono state significative. Questa differenza può essere spiegata da una serie di ragioni, ma il primo motivo è senza dubbio questo: gli Stati che sostengono l’opposizione moderata hanno fornito un appoggio decisamente più forte a Sud che a Nord. Così sono migliorate sia le capacità militari di questi gruppi, sia il loro coordinamento, proprio mentre al Nusra, apparentemente, si indeboliva».
Il Nord in mano all’Isis, il Sud ai “moderati”, più l’enclave alawita. Si può immaginare una partizione della Siria? Risponde Noah: «La soluzione non può essere militare. Nessuna delle parti in guerra è in grado di prevalere militarmente sull’altra. Uno sbocco politico rappresenta l’unica maniera per porre fine a questo conflitto, arrivato ormai al quarto anno. Al momento, il concetto di un governo di transizione accettato dalle parti, così come previsto dal cosiddetto “Comunicato di Ginevra”, è l’unica cornice in cui è possibile lavorare, cercando di portare ad un’intesa gli Stati che sostengono le fazioni siriane». Del resto, sembra passata un’era geologica da quando gli Stati Uniti ripetevano che i giorni del regime erano contati, e lo stesso inviato Onu, Staffan de Mistura, ha detto che Assad è «parte della soluzione». «Non voglio commentare le dichiarazioni di De Mistura», dice Bonsey. «Oltretutto, ha fatto una parziale marcia indietro, per cui non è chiaro, esattamente, che cosa volesse intendere. Ma la soluzione, ribadisco, non può che essere politica».
In Siria tutto cominciò a Daraa, marzo 2011, quando un gruppo di ragazzini scrisse alcuni graffiti sul muro di una scuola. «Il popolo vuole rovesciare il regime». Oppure: «È il tuo turno, dottore», in riferimento alla laurea in oftalmologia di Bashar al Assad.