La guerra continua, mentre a Ginevra riprendono colloqui di pace segnati dal mutato rapporto di forze. Ormai anche Turchia e Arabia Saudita si sono rassegnate alla sopravvivenza del regime. E l’elezione come capo-delegazione del pragmatico Nasr al-Hariri può preparare la svolta dell’opposizione
Non è facile essere ottimisti quando si parla di Siria e negoziazioni di pace. Ormai anche gli osservatori più attenti hanno perso il conto dei round di negoziati intrapresi, falliti o, semplicemente, lasciati morire. Prima c’era Ginevra e i negoziati patrocinati dalle Nazioni Unite. Ora c’è Astana, coi negoziati patrocinati da Russia, Iran e Turchia. E domani, forse, ancora Ginevra e l’Onu.
Astana, dove a parlarsi sono stati gli sponsor internazionali di regime e opposizione, qualcosa ha portato: le zone di de-escalation. Fortemente volute dai russi e spesso violate dal loro alleato Assad, indubbiamente rappresentano un terreno comune da cui partire per delle trattative dirette fra l’opposizione e il regime, nel quadro dei negoziati che riprendono domani a Ginevra.
Non è un granché come terreno comune. Primo perché la guerra continua, e i morti, soprattutto civili, continuano a contarsi a decine, se non centinaia, soprattutto nell’enclave ribelle di Ghouta, sobborgo di Damasco assediato da mesi e ridotto alla fame – sebbene sia formalmente protetto, appunto, dalla designazione di zona di de-escalation – e nell’est, a Deir Ez-Zor. Ma soprattutto perché le distanze sono ancora abissali e, ancora una volta, la maggior parte riguarda il ruolo di Assad. Per l’opposizione se ne deve andare subito prima dell’inizio di ogni transizione politica. Per il regime no, assolutamente. Assad deve restare per tutto il periodo di transizione, e poi si vedrà.
Se in passato l’inconciliabilità era risultata insuperabile a causa soprattutto dell’impossibilità delle due parti di costringere l’altra a più miti consigli, oggi le carte in tavole sono molto cambiate. Assad e i suoi alleati partono indubbiamente da una posizione di vantaggio militare senza precedenti. La gamma di opzioni dell’opposizione si è notevolmente ristretta, ed è per questo che i suoi rappresentanti (quantomeno quelli con ancora un briciolo di credibilità) si sono incontrati a Riyadh nei giorni scorsi. Obiettivo principale: eleggere un nuovo team di negoziatori in vista del prossimo round di negoziati a Ginevra e un rappresentante più malleabile di Ryad Hijab, dimissionario leader dell’Alto Comitato per le Negoziazioni, l’ultima incarnazione della rappresentanza dell’opposizione all’estero.
Le consultazioni hanno portato all’elezione di Nasr al-Hariri, siriano del sud, ex membro del parlamento di Damasco per la regione di Daraa’. Nel 2011 si dimise in protesta contro la violenta repressione delle proteste pacifiche iniziate proprio dalla sua città. Nel 2013 entrò a far parte della leadership della “Coalizione nazionale siriana delle forze rivoluzionarie e d’opposizione”, l’organizzazione-cappello formata a Doha a fine 2012 per sostituire il fallimentare “Consiglio nazionale siriano nella rappresentanza dell’opposizione siriana all’estero”.
Alla sua nascita la nuova coalizione era guidata da Moaz al-Khatib, moderato e rispettato ex imam della Grande Moschea omayyade di Damasco, probabilmente la figura più carismatica a rappresentare l’opposizione in questi anni. Sono i mesi della presa di Aleppo, delle battaglie di Homs e dello sgretolamento sempre più inarrestabile delle forze armate del regime che fra perdite e, soprattutto, diserzioni cessano di fatto di essere un vero esercito. Pochi mesi dopo, nell’estate del 2013, sarà un massiccio intervento esterno, quello dell’Hezbollah libanese, a salvare le sorti del regime per la prima volta (la seconda volta sarà l’intervento russo nel 2015) nella battaglia di Kusayr e nella grande campagna di Qalamoun, la regione al confine col libano.
Ma nelle stesse settimane, lontano dalla Siria, accade qualcosa di ancora più determinante per le sorti del conflitto. Il colpo di Stato che mette fine alla presidenza di Mohammed Morsi e al dominio della Fratellanza musulmana in Egitto assesta infatti un colpo fatale alla proiezione del Qatar nella regione, compresa la Siria. Dopo essere stata fino a quel momento un attore determinante soprattutto nel promuovere l’unità dell’opposizione siriana all’estero, Doha si ritira, almeno temporaneamente, dalle scene regionali cedendo il bastone all’Arabia Saudita. Riyadh diventa anche il nuovo principale sponsor della Coalizione nazionale siriana, sostituendone velocemente i leader e, soprattutto, rimuovendo l’influenza della Fratellanza musulmana siriana, sostenuta da Qatar e Turchia ma invisa ai sauditi.
Nei mesi e negli anni successivi si consuma lo scollamento irrimediabile tra ribellione sul campo e rappresentanza all’estero. Dentro la Siria la ribellione cambia definitivamente volto con l’apparentemente inarrestabile crescita di Jabhat al-Nusra (gruppo ribelle fondamentalista legato ad al-Qaeda) e di altri gruppi più o meno jihadisti come Ahrar al-Sham. Al di fuori la moderata e presentabile opposizione all’estero, che ormai riscuote ben poco controllo e credibilità all’interno del Paese, perde lentamente ogni velleità di essere rappresentante omnicomprensiva della ribellione, trasferendo lentamente il fulcro delle proprie attività dalla Coalizione nazionale a un nuovo organo, l’Alto Comitato per le Negoziazioni, con obiettivi ben più ristretti legati puramente ad avere qualche figura credibile che rappresenti l’opposizione nei consessi internazionali. E cade in una spirale di auto-esclusione. Dal confitto sul terreno, certo, ma soprattutto dalla realtà. Una realtà in cui l’opposizione diventa sempre più dipendente dalle sue componenti più estreme, a cominciare da Jabhat al-Nusra e le sue successive trasformazioni. Ma soprattutto una realtà in cui Assad consolida sempre più il proprio potere grazie ai puntelli iraniani e russi.
Lo scollamento è evidente soprattutto nella retorica. Quella di una opposizione che ancora oggi, al termine della conferenza di Riyadh che ha portato all’elezione di Nasr al-Hariri come nuovo capo-delegazione, invoca le dimissioni di Assad come precondizione per iniziare una fase di transizione verso uno stato democratico. O quella delle pagine del quotidiano panarabo al-Quds al-Arabiyy che plaudono la condanna di Mladic per le stragi della guerra in Bosnia, augurandosi che presto lo stesso possa accadere col regime di Assad. Una retorica difficile da abbandonare. Perché il regime di Assad quei crimini li ha commessi davvero, perfino più di Mladic e di tanti altri famigerati criminali di guerra. Ma Assad resterà. Se ne sono accorti gli osservatori a Occidente come ad Oriente. E soprattutto se ne sono accorti gli alleati esterni dell’opposizione, o almeno quelli che un tempo erano gli alleati esterni.
A Sochi, dove almeno teoricamente gli interessi dell’opposizione erano rappresentati dalla Turchia (visto che le altre due potenze presenti erano Iran e Russia, si deve andare per esclusione), Erdogan ha affermato tranquillamente che in futuro non esclude di poter collaborare con Assad in funzione anti-curda, prefigurando una alleanza di cui si rumoreggiava da qualche tempo ma che fino a pochi mesi fa appariva impossibile. Gli sponsor internazionali have moved on, si sono già rassegnati alla sopravvivenza del regime, diceva Hassan Hassan dalle pagine di The National già ad agosto.
L’unica a non averlo fatto sembra essere l’opposizione siriana. Almeno a parole. Perché in effetti l’elezione di una figura come quella del nuovo capo-delegazione sembra aprire a posizioni di maggior compromesso rispetto al passato. Nei mesi scorsi Al-Hariri è stato uno dei pochi rappresentanti dell’opposizione a partecipare alle negoziazioni di Astana, ed è anche un ex membro del parlamento, che in Siria significa ex membro del regime. Molti vedono in lui una figura molto più pragmatica e pronta a compromessi rispetto al suo predecessore Riyad Hijab. Ed è a compromessi, tanto grandi quanto dolorosi, che l’opposizione siriana deve prepararsi nei prossimi mesi.
@Ibn_Trovarelli
La guerra continua, mentre a Ginevra riprendono colloqui di pace segnati dal mutato rapporto di forze. Ormai anche Turchia e Arabia Saudita si sono rassegnate alla sopravvivenza del regime. E l’elezione come capo-delegazione del pragmatico Nasr al-Hariri può preparare la svolta dell’opposizione