«Non avrei mai pensato di indossare il cappotto della resistenza armata, ma per me è diventata l’unica forma possibile di attivismo», racconta Claudio Locatelli. Come lui tanti altri volontari si sono uniti al battaglione internazionale. Ma non tutti apprezzano i combattenti stranieri
Claudio Locatelli è rientrato a Padova da Raqqa poche settimane fa. Insieme a tanti volontari internazionali, ha combattuto a fianco delle Sdf, le milizie locali curde, arabe e cristiane, spalleggiate dagli americani per la liberazione della città dall’Isis.
«La guerra non è nulla di cui gioire» commenta, mentre ripercorre la sua esperienza in Siria insieme al Battaglione internazionale. Un passato da attivista, prima nei movimenti studenteschi del Veneto, poi in Palestina, a Gaza, e ancora con le popolazioni terremotate dell’Abruzzo, fino a Suruç, al confine tra Turchia e Siria, dove ha coordinato un progetto di comunicazione in un campo profughi per la popolazione siriana in fuga dalla guerra.
«A novembre 2014 ho partecipato a un funerale di un combattente dello Ypg (Unità di Protezione Popolare curde siriane Ndr.). Quel ragazzo aveva 23 anni, era un mio coetaneo. Ho pensato di partire, ma non era ancora il momento». Nel 2015 Claudio conosce a Diyarbakir una famiglia yazida che gli racconta il massacro del Sinjar, i rapimenti e le violenze subìte dalle donne da parte dei miliziani dell’Isis. «Promisi a me stesso di andare in Siria se le cose non fossero cambiate».
Ma la decisione di arruolarsi è maturata solo a febbraio 2017, quando Claudio si è unito al Battaglione internazionale. «Non avrei mai pensato di indossare il cappotto della resistenza armata – ammette – ma tamponare le conseguenze della guerra non mi bastava più. La resistenza armata è diventata per me l’unica forma possibile di attivismo, che avrei portato avanti insieme al mio lavoro sulla comunicazione della guerra».
Claudio è convito che la guerra in Siria non riguardi solo i curdi, ma il mondo intero: «Non si tratta solo di sconfiggere l’Isis, ma di unire i popoli in uno sforzo comune per creare qualcos’altro».
Della stessa idea è anche il comandante delle Forze Siriane Democratiche – Sdf a Raqqa, Lokman Xelil «Potrebbero continuare le loro vite felici, e invece vengono qui, a pagare spesso un prezzo molto alto. La loro presenza è motivo di orgoglio per noi e un’eredità storica che non potrà essere negata. L’unica difficoltà che incontriamo con i combattenti stranieri è la lingua. Questi uomini e donne non conoscono la nostra terra e le nostre tradizioni. Così gli insegniamo a vivere, come si fa con dei bambini».
Non tutti però vedono di buon occhio i combattenti stranieri. Spesso perché non conoscono le usanze locali e finiscono con l’innamorarsi della ragazza sbagliata, o perché non rispettano le regole basilari che vietano l’uso di alcool e droghe. Aram, un soldato cristiano del Syriac Military Council – Smc, ammette: «Dobbiamo sempre tenere un occhio aperto, non conosciamo il loro background e le motivazioni profonde per cui sono venuti qui a combattere. Siamo riconoscenti, ma ci rendiamo conto che sono alla ricerca di se stessi, e quasi tutti vogliono farsi chiamare eroi». (4 – fine. Per la leggere la prima parte del lavoro in quattro puntate che Linda Dorigo ha dedicato a Raqqa clicca qui.)
@linda_dorigo
«Non avrei mai pensato di indossare il cappotto della resistenza armata, ma per me è diventata l’unica forma possibile di attivismo», racconta Claudio Locatelli. Come lui tanti altri volontari si sono uniti al battaglione internazionale. Ma non tutti apprezzano i combattenti stranieri