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Siria: la trappola delle grandi potenze


Se non fosse per tutti quei morti, tutta quella distruzione e tutti quei profughi, si potrebbe provare, non senza un po’ di fatica, a comprendere le ragioni di tutti quei paesi che in questi anni hanno contribuito ad alimentare e inasprire un conflitto civile diventato apparentemente senza soluzione. Quei paesi che oggi, a quasi sei anni di distanza, vi si trovano irrimediabilmente impantanati, costretti a cercare una via d’uscita che sembri almeno una mezza vittoria, e che lo sembri abbastanza da poter giustificare tutti quei miliardi spesi, o quelle centinaia di propri morti caduti al fronte di una guerra non loro. Ognuno vi era entrato per soddisfare una ambizione che sembrava a portata di mano. Spesso una ambizione personale, in paesi dove spesso le aspirazioni dell’autocrate di turno si confondono con quelle di un’intera nazione.

Se non fosse per tutti quei morti, tutta quella distruzione e tutti quei profughi, si potrebbe provare, non senza un po’ di fatica, a comprendere le ragioni di tutti quei paesi che in questi anni hanno contribuito ad alimentare e inasprire un conflitto civile diventato apparentemente senza soluzione. Quei paesi che oggi, a quasi sei anni di distanza, vi si trovano irrimediabilmente impantanati, costretti a cercare una via d’uscita che sembri almeno una mezza vittoria, e che lo sembri abbastanza da poter giustificare tutti quei miliardi spesi, o quelle centinaia di propri morti caduti al fronte di una guerra non loro. Ognuno vi era entrato per soddisfare una ambizione che sembrava a portata di mano. Spesso una ambizione personale, in paesi dove spesso le aspirazioni dell’autocrate di turno si confondono con quelle di un’intera nazione.

L’Arabia Saudita di re Abdallah, per esempio, era entrata a suon di miliardi di dollari nel conflitto siriano per tentare di sferrare un colpo mortale all’influenza dell’avversario di sempre: l’Iran. Dopo aver sabotato metodicamente tutte le altre rivoluzioni popolari della Primavera araba che rischiavano di portare nuovi regimi democratici alle porte di una delle poche monarchie assolute rimaste sul globo, Riyadh decise invece di sostenere l’insurrezione siriana, che cercava di mettere fine al potere del principale alleato di Teheran nel mondo arabo. La missione all’epoca sembrava semplice: armare selettivamente alcuni gruppi, quelli ideologicamente più vicini; non sia mai che ciò che sostituirà Assad sia qualcosa di troppo laico e democratico. Nel 2012 la cosa sembrava quasi fatta. Assad traballava, e nuove unità di ribelli fondamentalisti si facevano largo tra i ranghi dell’Esercito libero siriano, forti dei soldi e delle armi del Golfo. Ma i principi di Riyadh presto hanno dovuto imparare nuovamente la regola aurea di tutte le guerre, e soprattutto di quelle moderne, una regola allo stesso tempo palese e sfuggente che sembra eludere le menti dei governanti, anche di quelli più lungimiranti: entrare in un conflitto è infinitamente più facile che uscirne.

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