Ottobre per la mia Somalia è il mese più crudele
Quarantotto anni fa, il golpe di Siad Barre dava inizio alla lunga notte della Somalia. Ora però la società sta finalmente rinascendo. E non vuole farsi piegare dall’attentato più letale della sua storia. Lasciati soli dal mondo, i somali si stanno scoprendo più uniti che mai
Quarantotto anni fa, il golpe di Siad Barre dava inizio alla lunga notte della Somalia. Ora però la società sta finalmente rinascendo. E non vuole farsi piegare dall’attentato più letale della sua storia. Lasciati soli dal mondo, i somali si stanno scoprendo più uniti che mai
Ottobre è sempre stato un mese cruciale per la storia della Somalia. Basti pensare che Il 21 Ottobre 1969 Siad Barre, un generale che si era formato in Italia, rovesciò il governo democratico somalo, durato solo nove anni, imponendo una dittatura militare tra le più feroci del continente africano.
Il suo regime dispotico portò il Paese nel giro di poco tempo ad una povertà estrema e a una corruzione diffusa. Un regime, è bene ricordarlo, che fu dapprima legato all’Unione Sovietica e poi dopo il 1977 (quando l’Urss scelse di appoggiare l’Etiopia di Mengistu Hailè Mariam nella guerra contro la Somalia) inglobato nella sfera di influenza degli Stati Uniti d’America. Un grande ruolo nelle politiche somale fino al 1990 lo ebbero anche Arabia Saudita, Egitto (Siad Barre fece entrare la Somalia nella Lega Araba) e Italia (soprattutto con la cooperazione e con l’università).
Quel 21 Ottobre fu fatale per il destino del Paese. Perché dopo 20 anni di quel trattamento liberticida la Somalia piombò negli anni ’90 nel baratro di una insensata guerra civile. Una guerra che oltre a creare morti e distruzioni per 27 anni, portò molti somali ad abbandonare il Paese. Non è un caso che proprio in quegli anni si crearono le più grosse comunità somale fuori della Somalia: da Minneapolis a Goteborg, da Londra ad Helsinki passando per Nairobi, Addis Abeba, Amsterdam, Manchester, Ottawa.
La Somalia visse una guerra fatta di mille stratificazioni. Come non ricordare la fallimentare missione Onu “Restore Hope” nel 1993? Come non ricordare l’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin che indagavano sul traffico di rifiuti tossici e armi nel 1994?
Come dimenticare gli errori fatali del contingente internazionale, americano in primis, che invece di pacificare la Somalia, l’hanno trasformata in un nuovo Vietnam? E fu così che dopo la missione Onu del 1993 la Somalia fu abbandonata completamente a se stessa dalla comunità internazionale.
Un denso oblio scese su di lei. La sua sorte ormai non interessava più a nessuno. Ed è così che un Paese conosciuto un tempo per i suoi incensi, i suoi pompelmi dolci e le sue papaie leggiadre, divenne una sorta di No man’s land, una terra di traffici di tutti i tipi, dalle armi agli organi, passando per i migranti. Il patrimonio ittico somalo fu depredato a fine anni ’90 e persino gli animali della savana preferirono sloggiare, si riversarono, come rifugiati a quattro zampe, nelle riserve del vicino Kenya.
La Somalia divenne così terra di signori della guerra che facevano il bello e il cattivo tempo nei loro feudi, terra di pirati che visto i traffici che solcavano l’oceano ricattavano navi internazionali con carichi non del tutto trasparenti e poi si, purtroppo, divenne anche terra di terrorismo. Uno dei più feroci gruppi terroristici al mondo è proprio al-Shabaab, gruppo somalo affiliato ad Al Qaeda, e considerato dagli esperti più violento del nigeriano Boko Haram. Gli anni 2000 furono per il Paese una lunghissima via crucis di tentativi abortiti per formare governi di transizioni e parlamenti raffazzonati. Ci si incontrava in alberghi a Nairobi per non combinare sostanzialmente nulla e nel frattempo il Paese sprofondava sempre più.
Poi come succede nelle storie più sorprendenti qualcosa magicamente è accaduto nel profondo dell’animo delle popolazioni somale, sia quelle rimaste nel Paese sia quelle espatriate. Possibile, si sono chiesti i somali, continuare con le stragi? Con quei figli perduti che pur di salvarsi dalla guerra e dal terrorismo si inabissano nel Mediterraneo? Possibile vivere in tanta disgrazia? Lontani dalla propria stella bianca, quella che campeggia al centro della bandiera inondata di azzurro? Ed ecco che uno scatto di orgoglio si è impossessato della Somalia che nel frattempo, nonostante la guerra, è diventata una società (che attraverso i suoi legami globali) ha saputo tenersi in equilibrio sopra la follia.
Ed è così che un movimento di popolo, di autoderminazione, ha portato Mogadiscio e molta parte della Somalia a rinascere. È tornata in tutti la voglia, anche se le difficoltà erano e rimangono enormi, di una vita normale. Ed è questa voglia di normalità che ha portato alla formazione di un parlamento e alle elezione di Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo (da formaggio in italiano, perché i suoi antenati avevano imparato proprio dagli italiani a fare il formaggio e a venderlo) come Presidente della Somalia.
L’hanno chiamata Primavera somala questa strana pace costellata di tanto in tanto di esplosioni e omicidi sommari. Ma le città rifiorivano. Ed ecco che uomini e donne di Mogadiscio sono tornati a farsi il bagno nelle spiagge, a mangiare zuppe di pesce, a uscire a volte anche di notte. Basti pensare che pochi mesi fa la gente si è riversata in massa allo stadio Konis, costruito dagli italiani (Konis deriva da Coni) per assistere alla prima partita di calcio notturna dopo anni di guerra. Le foto di questa normalità sportiva così stupefacente hanno fatto non a caso il giro del Web.
Ecco perché l’attentato del 14 Ottobre 2017 è stato così devastante. Il bilancio toglie il fiato. Secondo le stime ufficiali del Ministero dell’interno sono 359 le vittime accertate, 56 i dispersi (probabilmente morti) e 228 feriti tra cui molti in pericolo di vita. Il camion bomba, di fabbricazione italiana, era stato riempito all’inverosimile dai 600 agli 800 chilogrammi di esplosivo.
In tutta Mogadiscio, più testimoni hanno dichiarato che in tanti anni di guerra una esplosione così forte non l’avevano mai sentita. Come mille terremoti insieme ha sussurrato più di uno. Inoltre la zona colpita era tra le più trafficate di Mogadiscio, la K5 Junction, dove ci sono numerosi uffici, negozi e ristoranti. È la zona dell’hotel Safari, più volte nel mirino del terrorismo, che è andato in parte distrutto dall’attentato. Si ipotizza che il vero obbiettivo fosse il blindatissimo aeroporto internazionale, ma è appunto solo un’ipotesi.
È ancora poco chiaro anche chi abbia compiuto l’attentato. Non c’è stata nessuna rivendicazione ufficiale. Vengono indicati come colpevoli i terroristi di Al Qaeda, al-Shabaab, che si sono macchiati in passato di numerosi attacchi. Il fuoriuscito Mukhtar Robow, una sorta di pentito del terrorismo conosciuto anche come Abu Mansur, la cui foto che lo ritrae mentre dona il sangue per le vittime ha fatto infuriare molti somali, ha indicato proprio loro come autori del vile attentato.
Circolano però a Mogadiscio, e non solo, ipotesi differenti. Ovvero che il significato di questo attentato sia legato ad uno scenario geopolitico che contrappone in una proxy war Arabia Saudita e Qatar dopo il loro incidente diplomatico (la Somalia di Farmajo si è schierata apertamente con il Qatar, mentre altri parlamentari sono rimasti fedeli all’Arabia Saudita). C’è invece chi sottolinea come la Somalia sia diventata un avamposto turco (la Turchia di Erdogan ha una influenza enorme nel Paese). Gli analisti non tralasciano nessuna pista, anche se quella più probabile, e avvallata dagli inquirenti, sia quella del coinvolgimento di shabaab. Ma in mano al momento attuale si hanno solo dichiarazioni sparse e nessuna prova oggettiva.
Quello che invece è apparso subito chiaro e ha sgomentato le popolazioni somale, sia all’interno del Paese che tra gli espatriati, è stato il grande silenzio che ha avvolto la Somalia negli attimi e i giorni successivi all’attentato. La notizia è rapidamente passata dai telegiornali, nessun cordoglio internazionale, nessun interesse per le vittime. Inoltre sono stati pochi i Paesi (Qatar, Turchia, Gibuti, Etiopia, Kenya e tardivamente gli Stati Uniti) ad aver mandato supporto materiale, medicine soprattutto, e fatto trasportare i feriti più gravi via aereo nelle loro strutture più moderne.
Gli ospedali di Mogadiscio come Medina e l’ex Diqfer (che ora si chiama Erdogan, proprio per sancire la fratellanza con la Turchia) sono letteralmente scoppiati. Moltissimi operatori sanitari hanno dichiarato la loro impotenza davanti al calvario di molti e rassegnazione davanti alle medicine (anche le garze) che scarseggiavano sempre più.
Ed è così che i somali lasciati molto soli davanti al loro dolore si sono dati da fare. Su Twitter hanno presto cominciato a circolare liste dei feriti, iban per donazioni, numeri per sapere qualcosa dei propri cari dispersi. Un gruppo di giovani ragazzi ha organizzato una pagina Facebook Gurmad252 (https://www.facebook.com/gurmad252/) dove sono state raccolte le storie delle vittime e dei feriti, in una sorta di Chi l’Ha visto somalo. Hanno creato un servizio utile per chi non sapeva dove cercare notizie. Molti rifugiati in Europa per esempio si sono collegati a Gurmad per capire cosa era successo alle proprie madri o fidanzate/i.
Ed ecco i volti di chi è morto, di chi è stato dilaniato da quella bomba infame. Ecco alcuni nomi di chi non ce l’ha fatta: Bashiir Nur Lugey 60 anni, Ahmed Ciyoow 40 anni, Nur Abduqadir Abokar, 50 anni. E poi c’è il volto di lei, Maryan Abdullai, 21 anni, si doveva laureare in medicina il giorno dopo. Una delle tante ragazze che ha deciso di rimanere nel Paese e non emigrare in Europa. Voleva rendersi utile, curare la gente. É stata dilaniata dal camion bomba. I suoi occhi grandi, quello spazio aperto tra i denti, il suo sorriso timido, sono diventati il volto icona della tragedia somala. Pubblicato sul Guardian, su Le Monde, sul New York Times. Gianluca Costantini, disegnatore e fumettista italiano, le ha dedicato una vignetta commovente, dove il suo velo si trasforma nella bandiera somala e dove campeggia la scritta “Je suis Somalia”.
Su Gurmad si ritrovano anche coloro che stanno ancora cercando i loro cari dopo una settimana. Shamsa Afrah scrive che sta cercando il fratello Ciise Ibrahim Afrah 23 anni. Non ne hanno più notizia. Anche Mohamed Cabdulle Cabdi, 30 anni, è disperso. La famiglia di Xaliimo Daahiro Ducaale è disperata, hanno fatto postare la foto della loro congiunta, non sanno che fine abbia fatto, sa che è passata nel luogo dell’attentato. Sono tra i dispersi anche due calciatori: Axmed Qadar Cabdi del Horseed e Mustaf Qoor del Waxhool.
Ci sono storie che lacerano su Gurmad. La storia di Hooyo (mamma) Faadumo Xussen Cali il cui marito, un ambulante che vendeva rumay, una radice che si usa in Somalia per pulirsi i denti, è tra le vittime. Faadumo ha due figli e non sa come sostenerli. Ed ecco che parte la solidarietà. La colletta per far vivere dignitosamente la donna e i suoi figli. I somali si stanno abbracciando tra di loro. È dal giorno dell’attentato che le persone si sono riversate in piazza contro la violenza e il tutto è poi culminato nella preghiera del venerdì. Paradossalmente un attentato fatto per annichilire lo spirito dei somali, li sta invece rafforzando, superando persino le endemiche divisioni claniche.
Quella che è mancata è stata la solidarietà internazionale. Pochi segnali di vicinanza. Solo la Tour Eiffel, il ponte di Istanbul, una scritta a Toronto e il pensiero di Kuala Lampur hanno ricordato la tragedia somala. Pochi i tweet dei politici a parte i cordogli istituzionali. Solo Papa Francesco, Jeremy Corbyn e pochi altri hanno ricordato la tragedia. In Italia, Paese che ha colonizzato la Somalia e che quindi avrebbe una responsabilità storica, il silenzio è stato assordante. Solo il partito Radicale ha lanciato un grido di aiuto, attraverso la loro presidentessa Antonella Soldo, per l’invio urgente di medicine a Mogadiscio. E se Roma non ha illuminato il Colosseo con i colori della bandiera somala, fatto che ha spezzato il cuore a molti che in Somalia hanno studiato nelle scuole italiane, i somali di Londra hanno scritto una lettera di fuoco al sindaco Sadiq Khan dicendogli: noi ti abbiamo appoggiato durante le elezioni e tu ci hai dimenticato così.
L’oblio verso la Somalia ci dice molto del grado di disumanità raggiunto dai nostri media e dalle nostre istituzioni in Occidente. Una sconfitta per tutti. Chi ne esce vincitore è invece il popolo somalo, che non sta chinando la testa. Nel luogo del massacro, un Ground Zero che lacera i cuori per la devastazione avvenuta, verrà costruito un memoriale e la zona verrà chiamata 14 Ottobre. Per non dimenticare. E per partire proprio da lì per una Somalia senza più massacri.
Quarantotto anni fa, il golpe di Siad Barre dava inizio alla lunga notte della Somalia. Ora però la società sta finalmente rinascendo. E non vuole farsi piegare dall’attentato più letale della sua storia. Lasciati soli dal mondo, i somali si stanno scoprendo più uniti che mai
Ottobre è sempre stato un mese cruciale per la storia della Somalia. Basti pensare che Il 21 Ottobre 1969 Siad Barre, un generale che si era formato in Italia, rovesciò il governo democratico somalo, durato solo nove anni, imponendo una dittatura militare tra le più feroci del continente africano.
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