Parlando di Cina si è passati dal descrivere una specie di mondo medioevale, contornato da guardie rosse e temibile repressione, ad un mondo popolato da ricchi sfondati in grado di comprarsi tutto. Abbiamo visto centinaia di titoli con «La Cina compra» ora questo, ora quello, in ogni parte del mondo. Si tratta naturalmente di semplificazioni giornalistiche, che spesso celano una complessità che non è facile racchiudere in alcune righe di un giornale. Ma se l’informazione deve anche aiutare una società a trovare soluzioni, i numeri dell’on line cinese suggeriscono diverse traiettorie all’imprenditoria italiana, che da tempo cerca di trovare una quadra al mercato cinese.
In un primo tempo, negli anni scorsi, la fabbrica del mondo veniva vista come un luogo nel quale delocalizzare per produrre a bassi costi, sfruttando lavoratori e legislazione cinese, per inondare i mercati occidentali di prodotti fabbricati a due lire e rivenduti ai prezzi di mercato occidentali. Un metodo che ha fatto scoppiare la Cina, portandola al rango di potenza mondiale (acuendone alcune problematiche sociali che sono ancora oggi un grande punto interrogativo riguardo la tenuta «sociale» del paese) e arricchito parecchi imprenditori che avevano scommesso sulla Cina quando ancora non era certo il ritorno economico.
Da tempo la Cina, causa crisi occidentale e dinamiche economiche interne, non è più il luogo dove andare a produrre, bensì è diventato il mercato nel quale riversare i propri prodotti che incontrano la crisi dei mercati occidentali. La Cina tira, cresce la classe media, il governo centrale cerca di sviluppare il mercato interno: sembra una situazione ideale per quelle aziende alla ricerca di sbocchi e profitti.
Il problema è che il mercato cinese è complicato, ha caratteristiche proprie, basate sui comportamenti di acquisto dei cinesi, che spesso ai nostri occhi sono incomprensibili. Ci vuole quindi costanza, tenacia, pazienza e una buona dose di fortuna, per sfondare in Cina.
Ci sono però degli elementi che favoriscono alcune soluzioni. Molte aziende cercano di entrare nel mercato cinese nelle grandi città: si tratta di un errore ormai grossolano. Pechino, Shanghai, ma anche Canton, Shenzhen, le città di prima fascia, sono una partita ormai quasi conclusa. Chi c’è, c’è e ha un vantaggio competitivo straordinario contro le new entry. Inoltre i costi nelle grandi città sono alti, spesso non ripagano degli investimenti. Ci sono – naturalmente – alcune eccezioni, ma le città di prima fascia non costituiscono più in Cina un valido mercato di riferimento. Molto meglio cominciare a ragionare sulle cosiddette città di seconda fascia, sfruttando anche l’intenzione del governo di Pechino di urbanizzare sempre di più e creare nuovi mercati.

Ma la possibilità più grande è fornita dall’on line: in Cina ci sono 591 milioni di netizen, 464 milioni dei quali navigano usando uno smartphone. Giocano si divertono e soprattutto: comprano. L’e-commerce cinese supererà a breve quello americano aumentando il proprio giro di affari che già oggi si aggira sui 213 miliardi di dollari. I cinesi comprano di tutto on line, compresi i viaggi (e oggi i cinesi sono il popolo che viaggia di più e spende di più all’estero): il 52 percento dei cinesi prenota il proprio soggiorno all’estero via internet. Qunar, sito di viaggi, gestisce oltre 150mila prenotazioni aeree al giorno.
Parlando di Cina si è passati dal descrivere una specie di mondo medioevale, contornato da guardie rosse e temibile repressione, ad un mondo popolato da ricchi sfondati in grado di comprarsi tutto. Abbiamo visto centinaia di titoli con «La Cina compra» ora questo, ora quello, in ogni parte del mondo. Si tratta naturalmente di semplificazioni giornalistiche, che spesso celano una complessità che non è facile racchiudere in alcune righe di un giornale. Ma se l’informazione deve anche aiutare una società a trovare soluzioni, i numeri dell’on line cinese suggeriscono diverse traiettorie all’imprenditoria italiana, che da tempo cerca di trovare una quadra al mercato cinese.