Nel corso dell’ultimo decennio l’industria del carbone americana è entrata in una profonda crisi. A cavallo tra il 2006 e il 2015 la produzione di carbone negli USA è passata da 1170 milioni di tonnellate a 900 milioni, con una perdita di posti di lavoro pari a oltre il 20% degli addetti al comparto (oltre 20.000 unità), la potenza installata a carbone è passata da 313 a 279 GW e la produzione di energia elettrica da carbone è crollata da 2 milioni a 1,3 milioni di GWh annui.
Nonostante il Presidente eletto Donald Trump abbia puntato il dito contro l’Environmental Protection Agency (EPA) e il nuovo regolamento sulle emissioni, è improbabile che la sola revisione della normativa ambientale possa rivitalizzare il settore. Le radici della crisi, infatti, sono profonde e ramificate.
Una crisi complessa
Lo straordinario aumento della produzione di gas, connesso alla Shale Revolution e allo sviluppo delle riserve convenzionali, non solo ha ridotto il differenziale tra le quotazioni del carbone grezzo e del gas naturale a poco meno del 20% (il dato fa riferimento al prezzo pagato dagli operatori del settore elettrico alla consegna ), ma ha anche stimolato imponenti investimenti nella power grid e nel segmento della trasformazione che hanno prodotto una rapida espansione della rete di trasmissione del gas, una contrazione dei costi della logistica e un notevole aumento dell’efficienza energetica degli impianti gas-fired.
Il progressivo abbattimento del costo di produzione dell’energia da fonti rinnovabili, in particolare eolico e solare termodinamico, e le istanze di efficientamento di cui è stata fatta oggetto la power grid nazionale hanno inferto un ulteriore colpo alla competitività delle centrali coal-fired, concepite per sostenere il carico di base della rete elettrica e quindi caratterizzate generalmente da grandi dimensioni e scarsa dinamicità produttiva.
La normativa EPA di conseguenza ha solo accelerato la fine di impianti che già attraversavano gravi difficoltà sotto il profilo finanziario e industriale e che, in molti casi, dopo un onorato servizio di 40/60 anni, avrebbero comunque cessato l’attività nel giro di pochi anni o di un decennio.
D’altronde alle condizioni attuali le prospettive di medio/lungo periodo per il settore sono sconfortanti e i principali operatori del mercato elettrico americano stanno dirottando oramai da anni gli investimenti sul gas e sulle fonti rinnovabili.
Se la nuova amministrazione vorrà garantire un futuro di lungo periodo all’industria del carbone americana non sarà sufficiente la deregulation promessa dal Presidente eletto, ma sarà necessario un approccio molto più ampio e articolato.
L’approvvigionamento e la logistica
Nel corso degli ultimi decenni la differenza tra i costi di produzione delle miniere situate negli Stati Uniti Orientali e di quelle situate nella cintura interna si è andata ampliando.
Le grandi miniere a cielo aperto del Wyoming (bacino strutturale del Powder River, PRB) stanno spingendo progressivamente fuori mercato gli impianti sotterranei della regione degli Appalachi, che, pur producendo un carbone di qualità superiore hanno costi di produzione superiori del 300%.
Se, per ragioni geografiche e in funzione della disposizione della rete di distribuzione del gas in alcuni Stati il declino del carbone sarà difficilmente reversibile, un piano di investimenti sulle infrastrutture di trasporto garantirebbe in gran parte degli Stati continentali un abbattimento del costo della materia prima per gli operatori del settore elettrico e un ampliamento dell’orizzonte temporale per le centrali coal-fired.
L’adozione di nastri trasportatori elettrici di grandi dimensioni assicura un notevole risparmio sui costi di trasporto, come dimostrato dalla centrale da 700 MW costruita da Longview nei pressi di Maidsville (WV), una delle più efficienti e produttive degli USA, ma implica una ridisposizione degli impianti entro poche decine di Km dalle miniere. D’altronde, mettendo a sistema le strutture di trasporto dei complessi minerari, la rete ferroviaria e le vie d’acqua, riducendo al minimo il ricorso al trasporto su gomma e integrando la rete di trasmissione con nuove infrastrutture di collegamento sarebbe possibili ridurre di oltre il 20% il costo di trasporto sulle tratte interstatali e valorizzare ulteriormente i giacimenti con i costi di produzione più competitivi.
Efficienza energetica e controllo delle emissioni
Generalmente, la scarsa efficienza energetica e l’elevato impatto ambientale sono considerati i due principali limiti delle centrali coal-fired.
L’efficienza media delle centrali a carbone americane è di oltre il 30% inferiore a quella delle centrali gas-fired, mentre le emissioni, soprattutto di anidride solforosa e particolato, sono drammaticamente superiori.
Tuttavia, il ricorso a generatori di vapore supercritical e ultra-supercritical (in grado di operare al di sopra della temperatura e della pressione critica dell’acqua) e a turbine progettate per operare ad alte pressioni e ad alte velocità, nonché l’impiego di tecnologie di reheating (riciclo del calore di scarico), sono in grado di ridurre questo gap a meno del 10%, riducendo inoltre l’impatto ambientale della centrale, come nel caso dell’impianto di Longview presso Maidsville o della John W. Turk Jr. di Fulton (AR). Parimenti, l’utilizzo di tipologie di carbone a basso contenuto di zolfo (come quello estratto presso il PRB), il passaggio attraverso processi di desulfurizzazione, l’impiego di bruciatori a bassa emissione di ossidi di azoto, di sistemi di riduzione selettiva catalitica (SCR) e di iniezione di calce idrata sono in grado di abbattere le emissioni di anidride solforosa, diossido di azoto, metalli pesanti e polveri sottili ben al di sotto della media nazionale e delle soglie individuate dall’EPA, come dimostrano i dati raccolti presso la centrale di Coffeen (IL) o presso quella di Morgantown (MD).
I costi e l’orizzonte temporale
Date le dimensioni medie degli impianti, legate a economie di scala e di rete, e le caratteristiche della materia prima, decisamente più impura del gas naturale, i costi di avviamento e di O&M delle centrali coal-fired sono decisamente superiori a quelli delle centrali gas-fired.
Mediamente, a seconda delle dimensioni e dello schema costruttivo, una centrale a carbone ha costi di avviamento e di gestione, a parità di potenza, pari al 50/120% in più di una centrale a gas, paragonabili a quelli delle centrali solari termodinamiche o a quelli delle stazioni eoliche offshore.
Proprio per questa ragione, per assicurare un futuro all’industria del carbone americana è necessario garantire un orizzonte temporale di lungo periodo agli investimenti nel settore.
Dopo aver goduto per secoli di un differenziale di prezzo estremamente vantaggioso rispetto ai principali competitors, l’industria del carbone americana si trova all’improvviso a fronteggiare il ritardo strutturale, infrastrutturale, industriale e tecnologico accumulato nel corso del lungo predominio fondato sulla convenienza naturale della materia prima.
Se l’amministrazione Trump vuole assicurare delle prospettive di medio/lungo termine al segmento minerario e a quello della trasformazione deve mettere in campo politiche speculari a quelle messe in campo dall’amministrazione Obama sul fronte delle fonti rinnovabili: detrazioni fiscali, incentivi, interventi strutturali sulla normativa e sulla power grid. Sostanzialmente, deve garantire il sostegno pubblico al settore che assicuri agli operatori un orizzonte temporale di 40/60 anni.
Ma intraprendere una simile battaglia per meno di 100.000 posti di lavoro e per un segmento industriale che, anche per effetto dell’eredità culturale dei due mandati Obama, riscuote sempre meno simpatia nell’opinione pubblica, potrebbe comportare un costo politico rilevante.
E, nonostante la Longview preveda di cessare le attività del suo impianto di Maidsville per il 2060/2070, al momento, ben pochi altri operatori pagherebbero oltre 2 miliardi di dollari una simile scommessa.