Donald Trump rimane il leader indiscusso del partito e i politici repubblicani sono ancora selezionati in base alla loro fedeltà all’ex Commander-in-Chief.
Donald Trump, il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America, sembra essere sparito dal radar dei media mainstream internazionali, menzionato raramente o nelle occasioni che riprendono alcuni dei fatti più significativi della sua amministrazione, drammaticamente — e simbolicamente — terminata il 6 gennaio 2021, giorno dell’insurrezione al Campidoglio. Eppure, il suo team è ampiamente attivo su svariati fronti, con tentacoli ben saldi all’interno del Grand Old Party che, di fatto, vive in funzione dell’ideatore dello slogan “Make America Great Again”.
Nonostante il leader del Partito Repubblicano abbia perso le elezioni di novembre 2020 con uno scarto importante di circa 7 milioni di voto popolare, raggiungendo poco meno del 47% contro l’oltre 51% di Joe Biden, l’ex Commander-in-Chief ha conquistato il secondo maggior numero di consensi nella storia delle elezioni Usa, proprio dopo l’attuale inquilino democratico della Casa Bianca.
Da soli, già questi numeri sono utili a comprendere lo stato dell’arte della politica statunitense e il consenso ancora esistente attorno al successore di Barack Obama. Numeri che partono dalla famigerata Big Lie, la grande bugia che trova ampio consenso, con percentuali minime ma reali persino tra i democratici, secondo la quale l’ultima tornata elettorale sarebbe stata truccata.
Le rilevazioni di un sondaggio del maggio scorso condotto a livello nazionale da Ipsos/Reuters vanno in questa direzione: il 56% dei repubblicani è realmente convinto che ci siano stati dei brogli a causa di voti conteggiati illegalmente, specie tramite le schede elettorali consegnate via posta, per le quali Trump ha provato, con più di 60 tra ricorsi e battaglie legali, ad annullarne — senza successo — il valore.
Questo dato viene persino adombrato, se possibile, da un altro pensiero maggioritario tra gli elettori del GOP, quello che vorrebbe Trump vero Presidente degli Stati Uniti: per il 53% dei suoi supporter, è lui ad aver vinto le elezioni. E così non fa quasi rumore quanto riportato da Maggie Haberman, giornalista del New York Times, alla quale sono giunte informazioni sulle sconcertanti dichiarazioni di The Donald ad alcune fidate personalità di spicco — tra queste, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn e l’avvocato Sidney Powell — su un suo possibile reinsediamento alla Casa Bianca nel prossimo mese di agosto.
I complottisti di QAnon
Evidentemente, tale scenario è impossibile. Ma quanto affermato da Trump va a rinfocolare ulteriormente i desideri di alcune frange di estrema destra che supportano l’ex Presidente — e di conseguenza il Partito Repubblicano — fin dall’inizio della sua campagna elettorale del 2015 e, ancora di più, gli ideatori della teoria del complotto per eccellenza: QAnon. Chi si schiera dietro questa sigla crede nell’azione portata avanti da un fantomatico Deep State contro l’ex Commander-in-Chief per defenestrarlo dal suo ruolo, fatto puntualmente avvenuto con le elezioni del 2020.
Dunque, per riportare Trump alla guida della nazione servirebbe, per i membri di QAnon, un colpo di Stato. Il paragone più in voga tra gli adepti della teoria del complotto si riferisce al Myanmar, dove a febbraio si è svolto un golpe in seguito al non riconoscimento da parte dei militari delle elezioni tenutesi a fine 2020 nel Paese. La logica dei complottisti vorrebbe che un coup d’état accadesse anche negli States, con Michael Flynn che ha avvallato questa ipotesi nel corso dell’incontro di fine maggio a Dallas, in Texas, chiamato For God and Country Patriot Roundup organizzato da The Patriot Voice, aderente a QAnon. Flynn ha poi smentito tali dichiarazioni, sostenendo di essere stato mal interpretato.
Eppure, i partecipanti hanno applaudito l’intervento dell’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale che, rispondendo alla domanda di un marine che chiedeva perché non fosse possibile realizzare a Washington quanto si è visto a Naypidaw, capitale dello Stato asiatico, ha confermato: “Dovrebbe accadere qui”. Non a caso, QAnon è per l’Fbi un pericolo per la sicurezza nazionale, che può quindi compiere atti di terrorismo non dissimili da quanto avvenuto il 6 gennaio al U.S. Capitol, che ha visto, tra i manifestanti, anche i seguaci della teoria del complotto prendere parte al caos creato nella più alta istituzione democratica degli Usa.
Da anni è in atto un pericoloso scivolamento a destra del Partito Repubblicano, ancora più marcato nel periodo contemporaneo dalla conquista della nomination alle primarie nel 2016 da parte di Donald Trump e dalla sua vittoria contro Hillary Clinton. Ma è la ribattezzata rivoluzione repubblicana impressa dal Senatore Newt Gingrich, a partire dal 1994, ad aver radicalizzato le posizioni del partito, portandolo alla vittoria delle elezioni di medio termine durante la presidenza di Bill Clinton, quando il GOP conquistò la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Un risultato con pochi precedenti, che segna l’inizio della fine per il bipartisanship tra i due principali schieramenti e per gli esponenti liberali dei Republicans, con la ridefinizione dei confini ideologici e le pressioni efficaci del Tea Party.
Oggi il Partito Repubblicano è il risultato della trasformazione impressa dalle correnti più estremiste, che non può fare a meno di Donald Trump sia per l’appeal dell’ex Presidente verso la maggioranza dell’elettorato di riferimento che per una questione prettamente economica. Basti pensare che durante i quattro anni della sua presidenza Trump è stato capace di racimolare l’incredibile cifra di 2 miliardi di dollari e che, nonostante la sconfitta, porta ancora ingenti somme di denaro alle casse del partito dell’elefante, l’animale simbolo dello schieramento conservatore (o meglio, di destra) statunitense.
Ma per provare a cogliere ulteriormente l’importanza del ruolo di Trump nel GOP è sufficiente ripercorrere quanto avvenuto all’ultima convention del partito: una via di mezzo tra un one man show e un’incoronazione per le politiche dell’ex Presidente arrivata trasversalmente dai dirigenti repubblicani, così tanto convinti della bontà delle sue scelte che non si è neanche sentita l’esigenza di scrivere le linee programmatiche, la cosiddetta piattaforma. Questo documento, sia per i Repubblicani che per i Democratici, è di vitale importanza, perché blinda all’interno di un certo confine l’azione presidenziale. Nel 2020, il Partito Repubblicano ha così dato letteralmente carta bianca al suo leader indiscusso, senza neanche provare a suggerirgli un percorso da seguire per il quadriennio successivo.
Dopo i fatti del Campidoglio e il rifiuto di Trump nel condannare l’insurrezione, un’esponente su tutti è salita agli onori della cronaca per essersi, de facto, ribellata ai dettami del capo partito. Parliamo di Liz Cheney, figlia del già Vice Presidente Dick Cheney, membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Wyoming. La sua decisione nel votare a favore del secondo impeachment per l’allora Presidente risultava incompatibile col suo ruolo di House Republican Conference Chair. E infatti, il Partito ha ritirato il mandato di Cheney, eleggendo poi Elise Stefanik, figura per la quale Trump si è speso personalmente, nominata con 134 voti a favore e solamente 46 contrari.
La sua candidatura è l’esatta rappresentazione dell’inasprimento delle posizioni repubblicane: eletta nel 2014 come moderata e vicina all’ex Presidente della Camera Paul Ryan, si è poi distinta come strenua sostenitrice del suo leader durante il primo impeachment. Alcuni membri del partito, come Chip Roy del Texas, non avevano accettato di buon grado la sua nomina, ritenuta troppo centrista per le esigenze attuali. Ma se si vuol sopravvivere politicamente nel nuovo Partito Repubblicano plasmato da Donald Trump, è essenziale schierarsi apertamente sulle posizioni oltranziste, ormai linguaggio comune dei rappresentanti del Grand Old Party.
Donald Trump, il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America, sembra essere sparito dal radar dei media mainstream internazionali, menzionato raramente o nelle occasioni che riprendono alcuni dei fatti più significativi della sua amministrazione, drammaticamente — e simbolicamente — terminata il 6 gennaio 2021, giorno dell’insurrezione al Campidoglio. Eppure, il suo team è ampiamente attivo su svariati fronti, con tentacoli ben saldi all’interno del Grand Old Party che, di fatto, vive in funzione dell’ideatore dello slogan “Make America Great Again”.
Nonostante il leader del Partito Repubblicano abbia perso le elezioni di novembre 2020 con uno scarto importante di circa 7 milioni di voto popolare, raggiungendo poco meno del 47% contro l’oltre 51% di Joe Biden, l’ex Commander-in-Chief ha conquistato il secondo maggior numero di consensi nella storia delle elezioni Usa, proprio dopo l’attuale inquilino democratico della Casa Bianca.