
Lo spazio per procedere a Vienna c’era, ma il “momento magico” è stato sprecato. Il prossimo appuntamento a fine giugno 2015.
La soluzione era vicina (qualcuno ha parlato di un 95% di accordo sulle tematiche in discussione), ma alla scadenza del 24 novembre i negoziatori non sono riusciti a percorrere l’ultimo tratto di strada che avrebbe permesso di chiudere l’ultradecennale vicenda del nucleare iraniano.
Non sappiamo quali siano stati i punti su cui l’intesa si è bloccata, e tanto meno prevedere se e come questi punti possano essere risolti nel corso dei sette mesi che ci separano dalla nuova scadenza, fissata a fine giugno 2015.
Ma se dal piano tecnico passiamo a quello politico, c’è da constatare il fatto che il negoziato si è svolto, fino alla mancata conclusione di Vienna, in circostanze singolarmente favorevoli che al massimo potranno essere mantenute, ma certo non migliorate, mentre potrebbero subire modifiche in senso negativo.
• La presenza di negoziatori competenti, abili e seriamente impegnati nella ricerca di un risultato in entrambi i lati del tavolo: in particolare Mohammad Javad Zarif e, fino al suo recente passaggio “a riposo”, Bill Burns.
• La minaccia del cosiddetto Stato islamico, di fronte alla quale Americani e Iraniani sono dalla stessa parte, come lo furono al momento dell’attacco del 2001 ai Talebani.
• L’importanza di un successo per Obama, per cui una soluzione della questione nucleare iraniana potrebbe costituire l’unico significativo risultato positivo di una politica estera che ha collezionato delusioni e sconfitte.
• Il fatto che per Rohani e il governo centrista iraniano una soluzione della questione nucleare rappresenta un passaggio obbligato verso il consolidamento dell’ipotesi di evoluzione moderata del regime, mentre un fallimento comporterebbe una fine prematura del suo progetto politico.
Perché allora, nonostante queste favorevoli premesse, l’accordo non è stato raggiunto?
Il passaggio da Bush a Obama ha comportato una modifica non superficiale della linea americana, che aveva reso impossibile un’intesa durante la presidenza Khatami, quando gli Iraniani, che allora disponevano soltanto di poche decine di centrifughe, sarebbero stati disposti ad accettare un tetto quantitativo (allora si parlava di dozzine, e non – come oggi – di migliaia di centrifughe) mentre gli Americani, e gli europei, pretendevano di imporre “zero centrifughe”.
Ma resta sempre un residuo di questa linea, che pretende che, nel caso dell’Iran, le regole comuni previste dal Trattato di non proliferazione non siano sufficienti, e che quello che va scongiurato non è il passaggio dal nucleare pacifico a quello militare, ma la stessa capacità “di soglia” – una capacità che altri stati possiedono (pensiamo al Giappone) senza essere considerati in violazione del TNP. Ancora, a Washington, non si accetta fino in fondo, nei confronti dell’Iran, la logica del trust but verify di reaganiana memoria.
Se si trattasse solo di numeri, tempi e tipo di controlli, si potrebbe essere comunque ottimisti sulla possibilità che un accordo si raggiunga entro giugno. Il problema è che questo rinvio apre una “finestra di opportunità” per i nemici dell’accordo, che si sono attivati a distanza di poche ore dall’annuncio del mancato accordo a Vienna.
Il Congresso americano, in primo luogo. Un parlamento che, non solo nella sua componente repubblicana (dal prossimo gennaio maggioritaria anche al Senato) si è sempre caratterizzato per l’appoggio incondizionato a Israele, e dove qualcuno ha già proposto l’approvazione di nuove sanzioni, che renderebbero oggettivamente impossibile la continuazione della trattativa.
E approfittando della battuta di arresto del negoziato, anche a Teheran vi è da temere il risveglio delle forze oltranziste che, seppure minoritarie, mantengono posizioni di potere all’interno del regime, dal Majlis al corpo dei Pasdaran. Il Leader supremo – attento alla sopravvivenza del regime, da conseguire con la necessaria flessibilità piuttosto che con una piatta linea d’intransigenza – ha permesso a Zarif di portare avanti un serio negoziato, ma si è premunito corredando questa autorizzazione con ripetute espressioni di scetticismo nei confronti della buona volontà americana. È sempre pronto a lavarsi le mani di fronte a un fallimento, e a cambiare ancora una volta registro, con una svolta che non riguarderebbe soltanto il nucleare e la politica estera.
Ecco perché possiamo aspettarci mesi difficili. Resta possibile un fallimento, che avrebbe profonde conseguenze ben oltre la questione nucleare: un ulteriore inasprimento delle tensioni regionali, crescenti dubbi sulla possibilità di arrestare l’ondata jihadista, e la possibilità che, chiusa prematuramente la breve stagione del cauto riformismo centrista di Rohani, l’Iran torni nel vicolo cieco di un populismo ideologizzato e aggressivo, si dice che lo stesso squalificatissimo Ahmadinejad stia dando segnale di voler tornare a fare politica.
L’Italia non fa parte del gruppo negoziale (per una propria improvvida scelta del 2003 e non a causa di un’esclusione, mentre ne fa parte quella Germania le cui aspirazioni pensavamo di avere bloccato con il “catenaccio” in sede di riforma del Consiglio di Sicurezza), e non è nemmeno rappresentata attraverso Federica Mogherini, Alto rappresentante per la Politica estera della Ue, dato che Lady Ashton ha mantenuto il proprio ruolo nel 5+1 anche dopo la scadenza del suo mandato (fino a quando? C’è da chiederselo, di fronte a questa proroga del negoziato).
Eppure dovrebbe essere possibile, per l’Italia così come per gli altri paesi europei, far pesare i propri punti di vista e i propri interessi. Economici, ma non solo, visto che anche in termini di sicurezza regionale, una rottura della trattativa con l’Iran e un suo ritorno su posizioni di chiusura, isolamento e provocazione risulterebbero pesantemente negativi.
Lo spazio per procedere a Vienna c’era, ma il “momento magico” è stato sprecato. Il prossimo appuntamento a fine giugno 2015.