Il sud-est asiatico è al crocevia. E, nel 2017, potrebbe scegliere di imboccare una direzione inedita rispetto al passato. Il 2016 è stato un periodo denso di avvenimenti. Vari Paesi sono attraversati da cambiamenti più o meno palesi. Un processo, spesso sotterraneo, che nel corso del nuovo anno potrebbe ridisegnare l’assetto geopolitico della regione.
Le Filippine sono uno degli snodi centrali di questo percorso di ridefinizione. Il 10 maggio scorso, Rodrigo Duterte ha vinto le elezioni presidenziali con un ampio margine e si è insediato a capo del governo il 30 giugno successivo. Noto per il pugno duro contro droga e criminalità e per le sue uscite provocatorie rivolte in più di una occasione agli Stati Uniti, all’Unione Europea, all’Onu e alla Chiesa cattolica, dalla metà degli anni Ottanta, il leader ha dominato la scena politica di Davao City, nella difficile isola meridionale di Mindanao. Prima procuratore, poi sindaco per oltre due decenni, oggi è alla guida della Nazione.
Condannato da tutto il mondo per la sanguinosa guerra al narcotraffico, che secondo le stime non ufficiali avrebbe provocato la morte di oltre quattromila persone, il «Trump delle Filippine» o «Il giustiziere» – così come viene soprannominato dagli organi d’informazione mondiali – continua ad avere ampi consensi in patria. Soprattutto da quella parte della popolazione – la maggioranza – stanca dell’«occidentalismo» e affamata di rivincita dopo il dominio spagnolo e quello statunitense. Duterte, per questo, ha più volte messo in discussione i rapporti tra Manila e Washington, e sembrerebbe seriamente convinto a voltar pagina, per aprire un nuovo capitolo con i suoi ultimi alleati di Mosca e Pechino. Se così sarà veramente, potrebbe modificare drasticamente il ruolo degli yankee in tutta la regione.
Sempre che riesca ad arginare la deriva jihadista, nel sud. Là le formazioni radicali sono sempre più attive. Come ha dimostrato l’attentato del 2 settembre al mercato notturno di Davao: l’esplosione ha ucciso 14 persone, altre 70 sono rimaste ferite. L’attacco dinamitardo è stato rivendicato da un gruppo radicale locale che si ispira al Daesh. Secondo l’autorità, proprio il neopresidente Rodrigo Duterte era il principale obiettivo dei terroristi.
In Thailandia l’88enne Bhumibol Adulyadej, re dal 9 giungo 1946, è scomparso nel pomeriggio del 13 ottobre 2016 dopo una lunga malattia. Venerato come unica istituzione stabile in un Paese segnato da una profonda e prolungata instabilità politica, la sua scomparsa ha avuto forte impatto nella nazione, ancora in lutto. A subentrargli è stato il principe Maha Vajiralongkorn – l’unico figlio maschio – che il 2 dicembre scorso ha accettato ufficialmente l’invito dell’Assemblea nazionale ed è stato proclamato nuovo monarca. Regnerà col titolo di Rama X, essendo il decimo sovrano della dinastia Chakri. Il re assume le redini della monarchia thailandese che, con un patrimonio stimato da Forbes in oltre 30 miliardi di dollari, è tra le più ricche del pianeta. Ma le incognite sono molte.
Maha Vajiralongkorn non gode dello stesso sostegno del padre. L’aristocrazia, in particolare, è diffidente nei suoi confronti per i rapporti d’affari avuti in passato con l’ex premier Thaksin Shinawatra, nemico giurato della giunta militare ora al potere. Per questo, molti analisti prevedono ulteriori sviluppi nel breve periodo. Due le ipotesi più accreditate. Il nuovo sovrano potrebbe abdicare e lasciare spazio alla principessa Sirindhorn, secondogenita del re, che è molto ben vista dai thailandesi. L’eventualità è tutt’altro che remota anche perché, nel 1997, un emendamento ad hoc ha autorizzato la successione femminile. Un’altra teoria è che Maha Vajiralongkorn venga «assistito» da fedelissimi dell’esercito, cosa in parte già realizzata, in modo da proseguire sulla scia del rimpianto Bhumibol Adulyadej.
In Birmania la storica vittoria del National League for Democracy (NLD) il partito guidato da Aung San Suu Kyi alle elezioni del novembre 2015 doveva segnare un cambiamento netto per il Paese. Il 30 marzo 2016, Htin Kyaw ha giurato solennemente come presidente del Paese: è il primo civile a ricoprire l’incarico dopo decenni di giunta militare. Da allora, però, i mutamenti concreti sono stati pochi. I militari continuano ad avere un potere enorme. Mentre il premio Nobel per la Pace sembra rimanere troppo spesso in silenzio davanti ai massacri perpetrati dall’esercito contro le etnie che compongono il complesso mosaico della Birmania. I governi occidentali, forse accecati dalle risorse naturali, dalle opportunità strategiche e dalla manovalanza a basso costo che il Paese asiatico offre, gridano al «nuovo corso birmano». Ma la realtà – purtroppo – è che per un vero cambiamento ci vorrà ancora del tempo e, soprattutto, determinazione.
Alle trasformazioni interne nei differenti Stati, si somma l’effetto – transazionale – della crescita dell’estremismo di matrice islamista. Tutti i Paesi dell’area – dalle Filippine all’Indonesia, dalla Malesia al Bangladesh, passando per la stessa Thailandia – sono diventati importanti punti di passaggio sulla rotta per il Califfato per migliaia di foreign fighters. Anche il radicalismo interno, però, è cresciuto, mentre gli attacchi terroristici sono notevolmente aumentati. Ma il rischio – e l’incognita – principale è rappresentato, dal «fattore ISIS». O, meglio, dal ripiegamento di quest’ultimo in Siria e Iraq. Data la perdita di territorio, infatti, buona parte dei combattenti vengono «ricollocati». Una parte – i cosiddetti «ritornati» o ex combattenti stranieri– vengono spediti (o rispediti) in Europa. Il Califfato, però, cerca, al contempo, nuove frontiere da conquistare. Una di queste – dati gli squilibri economici, le contraddizioni sociali e l’attribuzione di diritti di cittadinanza incompleti a gran parte della popolazione – potrebbe essere proprio il sud-est dell’Asia.
@fabio_polese