Sono stati rinviati a data da destinarsi i colloqui per il rilancio della pace. Malgrado la grave crisi di rifugiati e la carestia conclamata, il Sud Sudan non riesce a sedersi al tavolo delle trattative per chiudere una guerra che si è frammentata in una miriade di conflitti interni
Più di quattro milioni di persone, un terzo della popolazione, sono fuggite dalle loro case dal dicembre 2013, da quando è iniziata la brutale guerra in Sud Sudan. Un conflitto che ha creato la più grande crisi di rifugiati in Africa dal genocidio ruandese del 1994 e precipitato alcune contee del Paese verso lo stato di carestia conclamata.
Ma i tentativi di trovare una soluzione a una crisi di tale portata stentano a decollare, come dimostra il rinvio del secondo round di colloqui per il rilancio della pace nel Sud Sudan, annunciato dalla Commissione congiunta di monitoraggio e valutazione (Jmec).
Il Forum di rivitalizzazione degli accordi di pace avrebbe dovuto tenersi giovedì prossimo ad Addis Abeba ma è stato posticipato a data da destinarsi dopo che il Jmec ha ricevuto la comunicazione ufficiale del rinvio da Ismail Wais, l’inviato speciale in Sud Sudan dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad).
Il rinvio sarebbe stato deciso dopo che diversi partiti dell’opposizione hanno accusato i mediatori dell’ Igad di aver ignorato le loro richieste, fra cui quella di far prendere parte ai colloqui il leader dell’opposizione armata, l’ex presidente sud sudanese Riek Machar Teny Dhurgon, attualmente agli arresti domiciliari in Sudafrica.
Numerose divergenze
Ci sono però altre ingombranti divergenze, che impediscono di riprendere i negoziati per riportare in vigore l’accordo di pace siglato nell’agosto 2015.
Le questioni di maggior attrito riguardano la governance, in particolare la composizione e la struttura dell’esecutivo di transizione. Poi, continua a dividere il numero e le dimensioni degli Stati e la composizione del parlamento. Non si è ancora trovato un accordo, inoltre, sui tempi per il reinserimento delle milizie ribelli nelle forze armate sud sudanesi, in vista della formazione di un esercito nazionale. Elevata è l’incertezza anche sulle misure di sicurezza da mettere in atto nella capitale Giuba durante la fase della transizione. Altri aspetti divisivi riguardano la smilitarizzazione dei centri civili, la creazione di nuovi apparati di sicurezza e la riforma dell’intero settore.
Tutto questo significa che le posizioni sono ancora così distanti da comportare un lungo lavoro preliminare, prima di poter riprendere il Forum di rivitalizzazione degli accordi di pace riportando le parti in conflitto al tavolo negoziale.
Il nuovo gruppo di Paul Malong
Ad aggiungere un ulteriore elemento di incertezza a questo confuso scenario, due settimane fa è arrivato l’annuncio a sorpresa del generale Paul Malong Awan, ex leader del Movimento di liberazione del popolo del Sudan – il partito politico separatista fondato nel 1983 per l’indipendenza dell’area meridionale – nonché ex Capo di Stato maggiore fino al maggio 2017 dell’esercito sud sudanese.
Malong, che un tempo era uno dei più stretti alleati del presidente Salva Kiir Mayardit, ha deciso di formare un gruppo d’opposizione denominato Fronte unito del Sud Sudan, attraverso il quale il generale, che si trova in esilio in Kenya, mirava ad aggiungersi agli altri tredici gruppi dell’opposizione, che avrebbero dovuto partecipare al secondo round delle trattative per riportare in vita gli accordi di pace collassati nel luglio 2016. Il Forum negoziale però è stato rinviato sine die, mentre molte anime dell’opposizione vedono ormai screditata la mediazione dell’Igad.
Annunciando la formazione del suo nuovo gruppo, Malong ha affermato che intende «arrestare la carneficina» della guerra in corso in Sud Sudan, sottolineando che «il presidente Salva Kiir, con l’aiuto di una piccola cricca di funzionari corrotti, ha fatto di tutto per saccheggiare letteralmente le casse della nazione fino alla bancarotta».
Da notare, però, che lo scorso settembre Malong era stato sanzionato dagli Stati Uniti per essersi macchiato di numerosi episodi di corruzione all’interno di un sistema di governo, che il Dipartimento di Stato Usa ha definito una “cleptocrazia tribale”, oltre che per aver ostacolato il riavvio dei colloqui di pace e boicottato le missioni umanitarie internazionali presenti in Sud Sudan.
Il governo di Giuba si è comunque opposto fermamente alla presenza del potente generale al nuovo round di negoziati per rivitalizzare gli accordi di pace. Un rifiuto prevedibile visto che il nuovo gruppo di Malong potrebbe assumere un ruolo importante nel conflitto, poiché l’ex capo dell’esercito probabilmente gode ancora di un notevole sostegno nella sua città natale di Aweil e in tutta la zona settentrionale della regione di Bahar el Ghazal, dove i ribelli di Machar finora non hanno mai combattuto.
Infine, non va dimenticato che una componente dell’opposizione riunita in nuovo cartello che comprende partiti politici e gruppi armati con un nutrito seguito, chiede che i 32 nuovi Stati del Paese siano sciolti e che la nazione devastata dalla guerra sia gestita con il vecchio sistema di governo. Ulteriore richiesta è che il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar si facciano da parte, così che il nuovo esecutivo di transizione sia guidato da una leadership diversa.
Forse potrebbe rappresentare una soluzione per fermare una guerra che si è frammentata in una miriade di conflitti interni, incorporando vecchie dispute sulla gestione delle terre, risorse energetiche e potere, che hanno lacerato nelle fondamenta la più giovane nazione del mondo.
@afrofocus
Sono stati rinviati a data da destinarsi i colloqui per il rilancio della pace. Malgrado la grave crisi di rifugiati e la carestia conclamata, il Sud Sudan non riesce a sedersi al tavolo delle trattative per chiudere una guerra che si è frammentata in una miriade di conflitti interni