In seguito agli eventi di Parigi, l’Europa si è scoperta vulnerabile e spaventata. La sua stessa identità è stata messa in discussione, ma, prima di tutto, il suo impegno nella costruzione di una società aperta e tollerante. Più di ogni altra cosa, gli attacchi stanno mettendo a dura prova i suoi rapporti con l’Islam, religione che viene sempre più associata al terrorismo e ad altre forme di estremismo.
“L’Islam è compatibile con i valori democratici?”. “Fino a che punto il terrorismo ne sta condizionando l’evoluzione?”. Queste sono alcune delle questioni discusse con Raza Ahmad Rumi, una voce di primo piano sulla scena pubblica pakistana contro le violazioni dei diritti umani e l’estremismo. Nel marzo del 2014, è sopravvissuto a un attentato in cui il suo autista ha perso la vita. Dopo poche settimane, ha lasciato il Pakistan per trasferirsi negli Stati Uniti, dove collabora con importanti think tank come il New America Foundation e lo United States Institute of Peace.
Gli attacchi compiuti a Parigi hanno rafforzato in ampi settori della popolazione occidentale l’idea che l’Islam è incompatibile con i valori tradizionali della democrazia. Qual è la sua opinione al riguardo?
“Il divario tra coloro che praticano la fede islamica e l’Europa liberale non è mai stato così ampio come negli ultimi tempi. I musulmani non si rispecchiano nel sistema di valori dell’Europa, ma vogliono allo stesso tempo trarre anche i vantaggi e le opportunità offerte dalle democrazie e dalle economie europee. Gli europei, pur accogliendo i musulmani nella loro terra d’origine, si aspettano che essi seguano le loro leggi, pur praticando la fede musulmana. Ma i recenti attentati di Parigi hanno fortemente scosso gli europei, innescando un nuovo dibattito sulla natura e sul futuro delle relazioni tra musulmani ed europei. Vi è la necessità di un dialogo aperto tra i musulmani e l’Europa liberale per determinare la forma futura della società occidentale, e il ruolo svolto in essa dai musulmani.
Cosa ancora più importante, i musulmani hanno bisogno di un processo di introspezione che sfoci in una revisione dell’attuale giurisprudenza, che consente agli estremisti di adottare i messaggi radicali provenienti da scuole minoritarie di pensiero come quelle salafita e Hanbali, le quali giustificano in qualche modo la violenza”.
Lei è d’accordo con la decisione dalla redazione di Charlie Hebdo di pubblicare nuove vignette sul Profeta Maometto?
“Sebbene io sia completamente a favore della libertà di espressione e di parola, ritengo che i redattori di Charlie Hebdo avrebbero dovuto mostrare una maggiore sensibilità agli eventi che si sono svolti nelle ultime settimane. Avrebbero potuto pubblicare nuove vignette dopo poche settimane, in modo tale che la tensione intanto diminuisse. (Alcuni giornali occidentali, tra i quali il New York Times, hanno più volte annullato/posticipato la pubblicazione di alcune notizie, su richiesta dei governi degli Stati Uniti, per proteggere le operazioni in corso e l’identità del personale governativo americano. Anche gli editori di Charlie Hebdo avrebbero potuto adottare un atteggiamento simile”).
Lei sa molto bene che cosa significa mettere a rischio la vita solo per esprimere liberamente la propria opinione. Cosa vuol dire fare il giornalista in un paese come il Pakistan? Si è sentito protetto dalle autorità?
“In Pakistan, essere un giornalista significa essere solo. Se si decide di trattare tematiche relative alla sicurezza o altri argomenti politicamente sensibili, le autorità semplicemente chiudono un occhio nei confronti della sicurezza dei giornalisti. Anche in caso contrario, le autorità del Pakistan hanno dimostrato la loro incapacità di proteggere i giornalisti, mentre i proprietari dei media hanno messo in mostra una negligenza criminale nel proteggere le vite dei loro giornalisti. I giornalisti pakistani, o almeno un gran numero di loro, si autocensurano e la maggior parte si schiera dalla parte dell’establishment o cerca in qualche modo di venire incontro ai militanti”.
Dopo l’attacco a Peshawar, in cui circa 150 persone hanno perso la vita (la maggior parte dei quali bambini), le autorità civili pakistane hanno sostanzialmente abdicato in favore dei militari. Quanto pensa che questo influenzerà il processo di maturazione democratica iniziato nel 2008?
“Ciò ha gravemente minato le conquiste fatte negli ultimi 6 anni. Ancora una volta, i militari sono giunti al posto di guida ed è condurre la politica estera, interdipartimentale di coordinamento in materia di sicurezza e di dirigere la guerra contro i militanti e gli insorti. Ha pressurizzato i partiti politici ad accettare la sua richiesta di istituire tribunali militari con ampi poteri. Il Governo civile sta affrontando solo le ire delle persone, perché è in grado di girare intorno all’economia del paese a causa della volatilità della situazione della sicurezza, mentre il militare sta consolidando la propria posizione agli occhi del pubblico, per le sue azioni contro il terrorista. Pertanto, il processo avviato nel 2008 per una dispensa democratica si sta minare questi giorni”.
Il Pakistan è tra i Paesi al mondo che più hanno subìto gli effetti dell’estremismo religioso. Eppure, il Paese non sembra unanime nel combatterlo. Per quale motivo?
“Alla popolazione pakistana ancora non è chiaro chi sia il vero nemico. Ampi settori della popolazione hanno subìto un processo di radicalizzazione ideologica negli ultimi decenni e considerano l’America e altri Paesi stranieri come nemici, accusandoli di essere dietro la diffusione del terrorismo nel Paese. Essi non ritengono nemmeno che questa sia la guerra del Pakistan. Pensano che i Pakistani stiano combattendo la guerra degli Stati Uniti e per questo motivo stiano tanto soffrendo. Allo stesso tempo, l’establishment militare ha usato la religione e i gruppi violenti di ispirazione religiosa per favorire i propri interessi strategici nella regione. Ciò ha complicato il dibattito e favorito la militanza nel paese. Tuttavia, limitati settori della popolazione pensano che questa sia la guerra del Pakistan e che lo Stato debba rivedere le proprie politiche di sostegno ai religiosi estremisti, poiché l’obiettivo di questi estremisti è quello di prendere il controllo del paese e di imporre la Sharia”.
Negli ultimi decenni, l’Islam è stato sempre più utilizzato da governi e da gruppi terroristici come mezzo di legittimazione. In che modo ciò influisce sull’evoluzione stessa della religione islamica?
“L’utilizzo violento della religione musulmana da parte di gruppi sia statali sia non-statali ha fatto dell’Islam uno strumento politico, non una pura tradizione religiosa. Questo mina l’evoluzione dell’Islam come religione e ora la maggioranza nel mondo colloca l’Islam accanto a ideologie come quella nazista o comunista. Ciò ha finito per influenzare il comportamento stesso dei musulmani e le istanze di riforma negli ambienti religiosi. Questa strumentalizzazione ha, inoltre, irrigidito anche lo sguardo dei musulmani nei confronti del mondo esterno e influito su ciò che la religione islamica significa per la stragrande maggioranza dei musulmani”.
“Definito in termini psicologici, un fanatico è un uomo che sovracompensa coscientemente un dubbio segreto.” Ritiene che questa citazione di Aldous Huxley possa oggi applicarsi al fanatismo islamico?
“Il fanatismo islamico è radicato nelle convinzioni di coloro i quali praticano la religione in una sua interpretazione estremista/radicale. Essi non possiedono dubbi. Nel loro pensiero non si nasconde alcun dubbio segreto. Sono assolutamente certi della loro linea di condotta, della loro visione del mondo, di qual è il significato delle azioni e di quali sono le conseguenze delle loro scelte. Sono fanatici che sovracompensano una convinzione, non un dubbio. Che pensano di essere i soli ad avere ragione e sono assolutamente sicuri della loro fede”.
N.d.A. Aggiungerei che è questo che li rende tanto pericolosi, una sfida senza precedenti per la nostra società. Una minaccia che deve essere gestita con grande attenzione e che impone la necessità di una collaborazione più stretta e sincera con un mondo musulmano mai diviso al suo interno come oggi. Divisioni che l’Occidente oggi non deve contribuire ad approfondire, ma anzi deve sforzarsi di mediare e risolvere, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione. Primo tra tutti, i negoziati con l’Iran, il cui esito positivo consentirebbe forse di aprire una fase nuova. Ma questa è un’altra storia.
*Raza Ahmad Rumi è un analista politico, giornalista e scrittore pakistano. Con la solida esperienza maturata lavorando per il governo del Pakistan e per la Banca asiatica di sviluppo, Raza è entrato nel mondo del giornalismo nel 2008. Da allora, è stato redattore presso il Friday Times, primo settimanale liberale del Pakistan. Ha lavorato anche come commentatore e opinionista politico per Capital TV e Express News. Rumi è stato Direttore del think tank Jinnah Institute e Direttore Esecutivo di Justice Network – una coalizione di ONG. Come professionista politico freelance ha collaborato con organizzazioni internazionali per lo sviluppo, governi e organizzazioni non governative. È a capo della NAPSIPAG – una rete regionale sulla governance. Gli scritti di Rumi possono essere trovati sul sito web www.razarumi.com. Il suo recente libro ‘Delhi by Heart’ è stato pubblicato da Harper Collins (2013).
In seguito agli eventi di Parigi, l’Europa si è scoperta vulnerabile e spaventata. La sua stessa identità è stata messa in discussione, ma, prima di tutto, il suo impegno nella costruzione di una società aperta e tollerante. Più di ogni altra cosa, gli attacchi stanno mettendo a dura prova i suoi rapporti con l’Islam, religione che viene sempre più associata al terrorismo e ad altre forme di estremismo.
“L’Islam è compatibile con i valori democratici?”. “Fino a che punto il terrorismo ne sta condizionando l’evoluzione?”. Queste sono alcune delle questioni discusse con Raza Ahmad Rumi, una voce di primo piano sulla scena pubblica pakistana contro le violazioni dei diritti umani e l’estremismo. Nel marzo del 2014, è sopravvissuto a un attentato in cui il suo autista ha perso la vita. Dopo poche settimane, ha lasciato il Pakistan per trasferirsi negli Stati Uniti, dove collabora con importanti think tank come il New America Foundation e lo United States Institute of Peace.