Tra due giorni, dopo una necessaria pausa dal subcontinente, torno a Delhi. Con gli anni mi sono reso conto di un limite temporale di sopportazione oltre il quale non mi è possibile rimanere in India, individuato nella misura di sei mesi.

Facendo una veloce valutazione dell’anno meteorologico, da qualsiasi punto del calendario si faccia partire il conto alla rovescia semestrale, è sicuro l’affrontare almeno una stagione, eufemisticamente, complicata. Prosaicamente, di merda.
Che siano i monsoni, che in città realizzate senza il minimo sistema di scolo delle acque crea un effetto Venezia allagata con fanghiglia putrida (senza pedane), o la tragica stagione pre monsonica, della quale avevo scritto in modo catartico qui, scontrarsi con la ruvidità del quotidiano indiano risulta inevitabile. Quando si torna in India dal Belpaese, frequentando numerosi italiani emigrati nel subcontinente, ho osservato il formarsi di due scuole di pensiero diametralmente opposte: la scuola Rientro Soft e la scuola Terapia d’Urto.
I seguaci del Rientro Soft organizzano il proprio bagaglio cercando di portarsi dietro, fisicamente, quanta più Italia possibile. Chi se lo può permettere, predilige volare con compagnie che accordino un peso da stivare intorno ai 40 kg, e li si riconosce alla coda del check in, dove trascinano enormi valigie incellophanate a prova di ladruncolo da nastro dei bagagli. Il tesoro custodito, prevedendo un lungo soggiorno in terra straniera, è effettivamente inestimabile.
Biscotti artigianali, salami, prosciutti, formaggi, vino, pasta, sughi pronti. Nei casi più disperati, anche forme di pane, merendine, vasetti di pomodori secchi o carciofini sott’olio. L’idea è quella di centellinare l’italianità lungo tutto il soggiorno indiano, ricreando all’interno delle mura domestiche indiane un’enclave di cucina e odori mediterranei che renda meno dolorosi i seimila chilometri che divideranno il seguace dalla tavola imbandita del pranzo domenicale.
La mia coinquilina, quando ancora non vivevamo insieme, mi aveva raccontato un episodio emblematico. Invitata una sera a cena a casa di un impiegato di sede istituzionale italiana in India, varcando la soglia ha appurato come tutto profumasse di Italia: detersivi per i pavimenti italiani, carta igienica italiana, saponi e shampoo in bagno italiani. L’impiegato pare riuscisse a farsi arrivare via container tutto l’occorrente per convincersi, anche solo all’olfatto, che risiedere a migliaia di km da “casa” fosse solo un temporaneo incidente di percorso, una scomoda prolunga del cordone ombelicale al quale tentava in ogni modo di rimanere aggrappato.
I Rientrosoftisti, sul lungo periodo, per la comunità italiana in India diventano una sorta di tesoretto nazionale, una meraviglia patrocinata dall’Unesco dove nei momenti più bui – e in sei mesi ce ne sono sempre, tra feste comandate, botte di nostalgia, sporadiche intossicazioni alimentari – si può trovare rifugio e sollievo dal Mal d’India (quello vero però, quello di cui si soffre mentre si vive in India).
Sfido chiunque, dopo mesi di approssimative colazioni italo-indiane, a non commuoversi di fronte alla sorda microesplosione della plastica che avvolge un Kinder Colazione Più, o allo scricchiolio dei cristalli di zucchero mentre addenti una Nastrina.
I convinti della Terapia d’Urto, al contrario, si preparano a un soggiorno all’insegna dello stoicismo. Devo rimanere sei mesi in India e lo farò senza illusioni, senza palliativi: via il dente, via il dolore. Il loro bagaglio è quindi organizzato in termini di sottrazione, valutando tutto ciò di cui, alla fine, si può anche fare a meno.
I beni di consumo che sopravvivono all’ingenerosa amputazione gastronomico-affettiva solitamente sono: caffè, olio e superalcolici regionali.
Io appartengo a questa seconda categoria, non disdegnando, in India, la compagnia di numerosi Rientrosoftisti. Nel pomeriggio partirà la caccia di offerte 3×2 di Amaro del Capo, che a Delhi risulta introvabile, caffè di dubbia qualità (ma sempre meglio di quello indiano) e olio d’oliva in latta da due litri.
E si ricomincia il conto alla rovescia.
Tra due giorni, dopo una necessaria pausa dal subcontinente, torno a Delhi. Con gli anni mi sono reso conto di un limite temporale di sopportazione oltre il quale non mi è possibile rimanere in India, individuato nella misura di sei mesi.