Questa vuole essere una dichiarazione d’amore incondizionato per il Punjab e i punjabi, popolo di instancabili lavoratori, dagli opinabili gusti musicali ma dotati di spirito intrepido nell’affrontare viaggi intercontinentali. Come i due che ho incontrato, rispettivamente, nel volo Roma – Zurigo e Zurigo – New Delhi. Ecco la prima puntata.
Lei
17 settembre 2014, volo Swiss Air sulla tratta Roma -Zurigo.
La fila per il check-in, alle 7 e mezza di mattina, scorre abbastanza velocemente. Appena davanti a me, una famiglia punjabi attende il proprio turno giostrandosi tra bagagli enormi debitamente incellophanati e due bambini piccoli moderatamente irrequieti.
Lei: scarpe da ginnastica, jeans, camicia, un’ombra di rossetto color carne e treccia. Lui: scarpa di pelle, jeans finto vissuto, maglietta aderente in microfibra nera, occhiale da sole a goccia, gel. Sono il prototipo perfetto della Coppia Punjabi Emigrata. Ci deve essere qualche problema coi bagagli, Lui mi invita a superarli nella fila con un “prego” pronunciato perfettamente, accompagnato dal gesto della mano. Un vero signore.
A bordo del velivolo la famiglia punjabi è seduta lato finestrino a fianco a me, posizionato nell’ultimo sedile dei posti corridoio. Ma sono solo tre, Lui è rimasto a terra.
Nella quiete generale di un placido volo Roma – Zurigo delle nove e mezza di mattina, la presenza di due piccoli punjabi irrequieti – sei e due anni, scoprirò poi – orfani della presenza autoritaria del padre ha delle conseguenze devastanti sull’aplomb che la crew del volo Swiss Air pretende dai propri ospiti.
Lei, seduta tra i due figli, armeggia con lo smartphone ignorando sistematicamente le indicazioni della hostess che dice di spegnere il telefono, stiamo quasi decollando. Lei dice “sì, sì”, fa finta di metterlo in tasca, appena la hostess si allontana ricomincia a parlare, in punjabi. Mette giù e mi viene il dubbio che non capisca né l’italiano né l’inglese, le dico in hindi stentato che bisogna spegnere il telefono che è pericoloso, lei mi risponde “Sì, ma ancora un po'”. Mi sorride con quel sorriso che fanno i bambini quando sanno di fare una cosa che non si può fare, e prosegue.
(Flashback – Un sorriso identico me l’aveva fatto il figlio minore della mia vicina di casa a Roma, quartiere Casalbertone, quando straziato dalle continue urla della madre nei confronti dell’altro fratello – che avrebbe dovuto controllarlo, stando alla madre – è uscito sul balcone davanti alla mia finestra sorreggendo sopra la testa il suo triciclo giallo e blu, con l’evidente intenzione di lanciarlo giù oltre il parapetto. Mi avvicino sporgendomi leggermente dalla finestra, ci dividono massimo due metri, e gli sussurro “No, non si fa”, facendo no col dito. Lui si gira, mi guarda, fa quel sorriso, e lo lancia giù dal balcone. Mentre lo schianto del triciclo richiama la madre in balcone, mi torna alla mente la scena finale di Qualcuno volò sul nido del cuculo).
Intanto i due ragazzini sono fuori controllo. Quello più vicino a me (il più grande, Francesco) gioca con un pupazzetto di aeroplano consegnatogli dalla hostess – confidando nelle proprietà sedative del giochino – e si agita stretto nella cintura di sicurezza. Quello più lontano (Davide, seduto al finestrino) è riuscito a divincolarsi dalla cintura e salta in piedi sul sedile urlando l’unica parola italiana che utilizza con scioltezza: “PICCOLINOOOOO”. Davide si autodenuncia così al resto dei passeggeri, con un cadenzare di “PICCOLINOOOOO” ad intervalli regolari di 40 secondi, mentre si dimena battendo i pugni contro il finestrino. È convinto di essere in treno, riesce a spiegarmi Lei in mezzo italiano e mezzo punjabi mentre cerca di braccare il piccolo Davide, ed è la prima volta che prende un aereo in vita sua.
La famiglia punjabi, infatti, viene da Reggio Calabria, dove vive da cinque anni. Il 17 settembre del 2014 coincide col primo ritorno in India da quando Lei, con Francesco, ha raggiunto Lui in Calabria. Davide è nato a Reggio e per la prima volta metterà piede nel suo “villaggio ancestrale” – come dicono in India – nei pressi di Ludhiana, Punjab.
In un’ora di viaggio la situazione si calma, tra caffè rovesciati in terra, briosche al cioccolato spalmate sul tavolino pieghevole, chiacchierate del più e del meno con Francesco (“Ti piace l’asilo? Sì. Ti piace l’aereo? Sì. Ti piace il cioccolato? Sì. Quanti anni hai?” Silenzio).
Il tutto viene affrontato da Lei – che a occhio e croce dovrebbe avere qualche anno meno di me, io punterei 25 massimo – con stoica indifferenza dei mugugni che tutt’intorno si levano di fronte all’esuberanza dei due piccoli punjabi. Questo, avrei riflettuto poi, mi sembra un tratto distintivo degli indiani in aereo: la totale impermeabilità alla peer pressure occidentale, il rifiuto categorico di ogni sovrastruttura comportamentale alla quale tutti noi sottostiamo quando siamo in aereo, la leggerezza col quale si fanno – ai nostri occhi moralizzatori occidentali – delle “figuracce” ma non si lascia trasparire alcun imbarazzo, pentimento, sconforto. È uno stato quasi buddhico che, da Roma a Zurigo, mi sono scoperto ammirare più di quanto mi aspettassi.
Ormai tra me e Lei si è instaurato un tacito rapporto di complicità: mentre Lei stritola Davide per bloccarlo con la cintura di sicurezza nelle fasi di atterraggio, io continuo ad intrattenere chiacchiere con Francesco, giochiamo col pupazzetto d’aeroplano, raccolgo i cioccolatini che lancia in direzione dei vicini, col sorriso di cui sopra e col mio “No, non si fa”, a questo punto empiricamente inutile.
Atterrati a Zurigo, si presenta il problema di prendere la coincidenza. Lei mi chiede di aiutarla, mi aspetta all’uscita del tunnel, mi appioppa per mano Francesco – che accetta la mia guida con entusiasmo – e mi fa capire che non solo questa è la prima volta che torna in India da cinque anni, ma che è la prima volta in assoluto che prende un volo intercontinentale, con due bambini al seguito. Riesce però a trovare un metodo alternativo alla sedazione chimica per calmare il piccolo Davide: tenendolo per una mano, gli affida nell’altra il suo smartphone, facendo partire un tipico motivo disco-punjabi (tipo questo). La canzone, riavviata dalle sapienti manine del nativo digitale Davide, avrebbe risuonato dalle potentissime casse dello smartphone di Lei per il resto della permanenza all’aeroporto di Zurigo.
Le spiego che prendere una coincidenza in aeroporto è facile, basta seguire le indicazioni, il nostro volo parte dal Gate E tra un’ora, non dobbiamo correre ma è meglio muoversi. Passiamo i vari controlli indenni, fin quando chiedo a Lei e ai bambini di aspettarmi sotto a uno degli schermi con gli orari delle partenze, mentre corro al duty free per fare rifornimento di tabacco e alcolici.
Al mio ritorno, la famiglia punjabi è in compagnia di due conterranei inturbantati. Due uomini distinti, giacca e cravatta, coi quali si confabula in punjabi su quale fosse il gate, come arrivarci, quanto tempo mancava alla partenza. Lei mi vede e sorride, mi presenta ai due opinion maker – che in cinque minuti di chiacchiere sono riusciti a confondere completamente le idee di Lei, ora insicura sul volo da prendere, sul gate, sull’orario, sulle direzioni – e dice che la sto aiutando, che andiamo insieme in India.
Mi libero degli opinion maker – non prima di aver assicurato anche loro su quale volo LORO dovessero prendere, gate e tutto il resto – e raggiungiamo tutti insieme il Gate E. Lascio la mano di Francesco, saluto Lei e il piccolo Davide e mi siedo ad aspettare.
Qualche sedia più in là della mia, contorto come solo gli indiani sanno fare quando cercando di ottimizzare le attese schiacciando un pisolino, c’è un signore sulla settantina, bellissimo: barba bianca, pantaloni semi-eleganti, sandalo da battaglia, turbante blu sbiadito.
Non potevo immaginare che proprio lui si sarebbe accomodato al sedile di fianco – lato finestrino, lui – sul volo Zurigo – Delhi. E che nelle 8 ore di viaggio il nostro sodalizio (superando le barriere effimere di età, linguaggio e provenienza) si sarebbe rivelato un viaggio nel viaggio, un giro sulle montagne russe della socioantropologia ad alta quota.