Dopo la cronaca del volo Roma – Zurigo in compagnia di Lei e dei piccoli Davide e Francesco, ecco la seconda parte della mia elegia dedicata al Punjab e ai punjabi. Volo Zurigo – New Delhi, otto ore al fianco dell’uomo con la barba.

Pratim Singh
17 settembre 2014, volo Swiss Air sulla tratta Zurigo – New Delhi
Il volo Zurigo – New Delhi della Swiss si avvicina alla partenza con un mezzo psicodramma collettivo dei miei immediati vicini di sedile. Davanti a me, nella fila dei posti lato finestrino destro – fila da due posti – un uomo indiano, nell’impietosa lotteria dei posti assegnati al check in online, è rimasto tragicamente separato dalla sua compagna di viaggio (e di vita, sospetto), relegata nella colonna da cinque posti in mezzo al velivolo. Al suo fianco, una signora svizzera sulla quarantina.
Nel tentativo di trovare qualcuno con cui cambiare posto, ma senza costringere nessuno a dividersi dal proprio compagno/a, l’uomo si alza in piedi e imbastisce una sorta di asta collettiva per il suo sedile, previa autorizzazione della hostess: “Fate tutti i cambi che volete, basta che alla fine siete tutti seduti”.
Seguo le contrattazioni, provando a barattare il mio posto lato corridoio col suo lato finestrino, ma quando mi alzo noto la svizzera furente, epidermicamente disturbata da questa indianissima manifestazione di malleabilità delle regole imposte dall’alto. Per la signora svizzera, è evidente, una volta emesso il biglietto si esauriscono i margini del baratto, ognuno deve stare seduto come da numerino senza lamentarsi, e non si capacita di come lei, già ordinatamente accomodatasi al suo posto lato corridoio con tanto di cintura di sicurezza allacciata, debba vivere questi momenti di sospensione del certo, esponendosi al rischio di un vicino di viaggio potenzialmente molto più fastidioso del mansueto indiano che il Caso le aveva dato.
Alla fine si sposteranno in quattro, trovando una sistemazione armoniosa per quasi tutti i passeggeri nelle vicinanze. In tutto questo, al mio fianco, l’uomo con la barba fa balenare in silenzio un paio di occhi azzurrissimi, vispi, ammirato dal clamore circostante.
L’aereo non fa tempo a staccarsi dalla pista di atterraggio che sto già dormendo, pronto a otto ore di agonia senza potermi rannicchiare contro il finestrino e senza voler chiedere all’uomo con la barba di fare a cambio posto. Al mio risveglio mi accorgo che l’hostess non ha distribuito né a me né all’uomo con la barba lo snack di benvenuto. Ci ha saltato e l’uomo con la barba, noto, guarda sconsolato i sacchettini di mini-pretzel vuoti in bella mostra sui tavolini di tutti gli altri. L’hostess passa allora con le bevande, chiedendo prima all’uomo con la barba “Would you like something to drink?”. Silenzio e sguardo perso, l’uomo con la barba non conosce una parola di inglese.
Per quella innata pulsione maschile che ci spinge a risultare desiderabili a qualsiasi donna reputiamo desiderabile – e la hostess lo era, con quell’anello al naso nascosto, rivoltato all’interno, che lasciava immaginare un inverso di trasgressione dietro la divisa bianca e rossa di Swiss – mista al buon samaritanesimo ad alta quota, chiedo in hindi all’uomo con la barba se volesse bere qualcosa. Sorride, sorpreso, mi dice di prendere dell’acqua. E questo è l’inizio di lunghe chiacchierate fatte di hindi maldestro, sorrisi e linguaggio non verbale.
L’uomo con la barba crede io sia indiano, lo rassicuro del contrario e inizio a carpire qualche informazione frammentaria, interpretando alla bella e meglio il suo punjabi. L’uomo con la barba, come evincibile da turbante e barba, appunto, è originario del Punjab e, sostiene, questo è l’ultimo tratto del suo viaggio di ritorno, ché lui vive a Washington. Mi pare impossibile un suo soggiorno continuativo a Washington, considerando il livello zero di inglese a parte “Thank you”, ma sorvolo e gli faccio capire che se gli serve qualcosa me lo può dire, così lo aiuto nella comunicazione con la hostess.
La questione dei salatini mancati non gli è andata giù. Mi chiede come mai a tutti hanno dato lo snack e a noi no. Gli dico che stavamo dormendo entrambi e ci hanno saltato, sfoggiando il segno panindiano per “che ci dobbiamo fare?”: mani tese in avanti, palmi in alto, dita leggermente chiuse come per afferrare una mela dall’albero, roteare i polsi.
La giustificazione non soddisfa l’uomo con la barba, che insiste nel chiedermi di portare le nostre rimostranze alla hostess colpevole di averci dimenticato. Esige, giustamente, i salatini che gli spettano.
Cerco di calmarlo, spiegando che tanto tra poco ci portano da mangiare vero, di non preoccuparsi. L’uomo con la barba allora sorride, mi stringe la spalla in segno di amicizia/complicità, ripete molte volte “Thank you, thank you”, e si cheta.
In otto ore di volo Swiss Air distribuisce uno snack, un pasto completo e uno spuntino, più due ulteriori giri di bevande. E ogni volta che il carrello delle vivande faceva capolino dal fondo della business class, l’uomo con la barba entrava in uno stato di irrequietezza anche pericoloso, considerando la veneranda età. Alla distribuzione del cibo davanti a noi, l’uomo con la barba si alzava leggermente dal sedile, indugiando sui vassoi degli altri, e quando sistematicamente il carrello tornava indietro senza averci dato nulla – i nostri posti coincidevano precisamente con l’esaurimento della capienza del carrello – cercava la mia attenzione imponendo che facessi qualcosa, che chiamassi la hostess, così che noi non fossimo nuovamente dimenticati dal servizio.
Provo a spiegargli che non ricapiterà, che se siamo svegli il cibo e le bevande ce le portano, che non bisogna agitarsi, ma lui non vuole sentire ragioni. In hindi mi chiede di chiamare da lontano la hostess, di dirle che noi ancora non abbiamo mangiato, invito che declino col segno pan-indiano del “No, grazie”: mano destra levata all’altezza del capezzolo destro, palmo rivolto verso l’esterno, le cinque dita unite e puntate verso l’altro, lieve oscillazione del capo verso destra. Alcune volte si spazientisce e urla verso la hostess, pretendendo il suo cibo, senza alcun esito positivo.
Quando finalmente arriva il nostro turno, inizio a capire un poco di più la psiche dell’uomo con la barba. Evidentemente mi usa come cavia, aspetta di vedere cosa ordino io, poiché presumo non abbia idea dell’offerta di bibite e alcolici del carrello né, tantomeno, sia in grado di indagare in prima persona. Al primo giro ha preso l’acqua – che figurati se non hanno l’acqua, avrà pensato – e me la fa riordinare di nuovo per accompagnare il pranzo, mentre io chiedo una birra. Vedendo la lattina, ne vuole una anche lui, mediazione che faccio con piacere poiché la hostess col piercing nascosto mi sorride e mi chiede
Do you speak his language?
Not really, but somehow we can understand each other – sorriso.
Oh, you’re so sweet, thank you for helping us
It’s a pleasure – sorriso.
Il consumo del pasto meriterebbe un pezzo a parte, mi limito alle riflessioni post pranzo.
I pasti in aereo, per essere consumati, prevedono una serie di competenze tecnico-scientifiche che molti di noi danno per scontate. Riuscire a mangiare tutto ordinatamente, indovinando la sequenza dei cibi da esaurire prima, così che i contenitori siano incastrabili per far spazio alla consumazione di altri cibi più complessi – prima finire l’insalatina, mettere la ciotolina sotto quella del dolce, poi mangiare il piatto unico, riempirlo dei residui di plastica, mangiare pane con burro, mangiare dolce, impilare tutto, restituire il vassoio – e si eviti si spargere tutto in giro, è impresa ardua che si migliora con l’esperienza.
L’uomo con la barba, giustamente, dimostra di non avere la minima idea di come affrontare un pasto ad alta quota, anche perché – e facciamo un po’ di orientalismo – il catering internazionale è plasmato sulle abitudini occidentali di forchetta e coltello. L’uomo con la barba ha provato a mangiare il suo sacrosanto pasto indian veg come si dovrebbe mangiare ogni pasto indian veg: con le mani, facendo il cibo a pallette aiutandosi con le chapati.
Gli effetti sullo spazio circostante sono devastanti, con schizzi di lenticchie dappertutto che credo di aver abilmente minimizzato col gesto pan-indano del “Va tutto bene”: occhi leggermente socchiusi, sorriso a labbra chiuse, oscillare il capo a sinistra e a destra.
A due terzi del viaggio, mentre mi gustavo la proiezione privata di X-Men: Days of Future Past, l’uomo con la barba – che non ha mostrato segni di interesse nell’interagire col suo schermo multimediale, operazione che anche solo spiegarla avrebbe richiesto energie e competenze linguistiche non in mio possesso – mi fa interrompere la visione per anticiparmi che, al momento dell’atterraggio, avrei dovuto aiutarlo a compilare il foglietto di dichiarazione dei bagagli per la dogana. Gli dico di non preoccuparsi, proseguo la visione del film e mi riaddormento.
Al mio risveglio ci siamo quasi, lo schermo dice che stiamo già volando sopra Delhi, tra una ventina di minuti atterreremo. Come promesso, compilo il mio foglietto per la dogana e chiedo all’uomo con la barba di darmi i suoi documenti, così glielo compilo io.
Mi consegna il passaporto e – non me lo perdonerò mai – non ho avuto la prontezza di controllare né i timbri dei visti precedenti (avrei scoperto se effettivamente arrivava da Washington) né l’età. Mi ricordo solo che si chiamava Pratim Singh.
Compilo tutto il foglio e glielo passo, indicandogli che la firma la deve fare lui. “Falla tu” mi dice, ma insisto. “La posso fare in punjabi?”, “Certo” gli dico, offrendogli la penna.
Avendo un nome molto lungo e un’ortografia comprensibilmente approssimativa, Pratim Singh decide di firmare il foglio in verticale, occupando quasi tutta l’altezza del documento, fregandosene dei puntini minuscoli dove la firma sarebbe dovuta essere. Provo a fermarlo ma è troppo tardi e allora ci rido su, ride anche lui, chi se ne frega.
Gli riconsegno il passaporto e mi preparo a scendere, ma Pritam Singh mi batte sul braccio, apre la prima pagina del passaporto e mi fa vedere la sua foto, identica alla sua faccia. Stesso turbante, stessa barba, stessi occhi vispi azzurrissimi.
“Quando arriviamo e glielo faccio vedere, lo capiscono che sono Pratim Singh, non serve la firma!” mi dice.
E sul fatto che fosse proprio Pratim Singh, l’uomo con la barba da Washington che aveva paura di essere dimenticato dalla hostess, non poteva esserci alcun dubbio.