Il lusso è un concetto relativo. E più che di lusso come valore assoluto, in generale, trovo sia più realistico parlare in termini di lusso percepito.
La percezione di lusso del sottoscritto, da quando il riksha mi ha lasciato davanti al Leela Palace (precisiamo, non proprio davanti davanti all’arco d’entrata sorretto da due elefanti in pietra e presidiato da uscieri vestiti da guardia del maharaja rajasthani, con tanto di baffo all’insù, bensì dall’altra parte della strada: i riksha non ci possono salire fino al cospetto degli elefanti del Leela Palace) ha raggiunto l’acme nei bagni della terrazza del secondo piano, dove si teneva il ricevimento di matrimonio di una giovane coppia di amici.

I bagni del Leela Palace – hotel a cinque stelle nel bel mezzo di Chanakyapuri, il quartiere diplomatico di New Delhi – sono arredati in tinte panna / marmo con venature e legno, illuminati da una luce calda e fioca molto simile a quella del Venetian di Macao che, vado a memoria, nella Las Vegas cinese descrivevano come “la luce del tramonto del tardo pomeriggio veneziano”. Nei bagni del Leela, come tra le roulette del Venetian, c’è un atmosfera da tramonto perenne; si perde la concezione del tempo e dello spazio e se in mezzo alle slot machine del casinò orde di cinesi bruciano migliaia di euro al minuto forti di una disponibilità economica eccezionale, la capienza limitata della vescica umana (per quanto si sia bevuto copiosamente all’open bar della terrazza) impone i tempi fisiologici al soggiorno estatico nella toilette.
Le operazioni di minzione sono supervisionate silenziosamente da un inserviente dell’hotel che svolge una doppia mansione: rigorosamente in piedi a metà strada tra la porta del bagno e i lavandini – manopole d’oro, piano di marmo e ceramica, saponiera in ceramica, doppia opzione di fazzolettini di carta, impilati o disposti a bouquet in apposito dispenser – con la mano destra ti porge un asciugamano bianco, offrendosi di asciugarti le mani, mentre con la sinistra ti apre la porta per uscire.
Ecco, in quel momento ho pensato che era da più o meno 23 anni che nessuno si offriva di asciugarmi le mani. Soprattutto che a farlo fosse qualcuno diverso da mia madre, mio padre o i miei nonni e in un’età in cui raggiungere l’altezza del portasciugamani mi riesce con una certa disinvoltura.
Il ricevimento al Leela è stata l’ultima stazione della via Crucis matrimoniale dei due amici, una settimana di festa non-stop dislocata tra Goa, Mumbai e New Delhi. Uno sforzo di gioia che la sposa, in una rarissima manciata di secondi non a favore di macchina fotografica, ha sintetizzato in: “Ho pensato che una persona dalla mentalità positiva può reggere al massimo un’ora e mezza con tutto questo trucco, gioielli, vestiti e sorriso; una cinica, invece, non oltre i quaranta minuti”. La frase è stata pronunciata alle 23:14 di sabato 29 novembre, quando Ana, tecnicamente, era diventata sposa di Ashish già da quasi 150 ore. E ancora sorrideva.
Il ricevimento, mi è stato spiegato, viene dopo il party/devasto degli amici degli sposi (fatto a Goa) e dopo la cerimonia religiosa per far contenta la famiglia (fatta a Mumbai). È un appuntamento pensato per “i colleghi di lavoro” e quindi il dress code è abbastanza rilassato: sari per le donne, smoking per gli uomini, esentati dal vestito tradizionale. Al ricevimento, per dirla tutta, se si è amici degli sposi ci si ingozza di cibo e alcol e si glorificano stancamente le imprese alcoliche del party/devasto.
Il tutto avviene in un clima di efficienza surreale animata da un esercito di zelantissimi camerieri che sciamano tra i tavoli, pronti ad ogni evenienza: metti in bocca una sigaretta, spunta un cameriere con un accendino; ti sei dimenticato la forchetta al tavolo del buffet, spunta un cameriere con forchetta, tovagliolo e bottiglietta d’acqua; ti avvicini a qualsiasi porta (bagno, uscita della terrazza), c’è un cameriere che te la apre e, prima che tu possa ringraziarlo, “thank you” te lo dice lui; finisci la birra, un cameriere si avvicina e ti dice, testuale, “How about I double your beer, Sir?”, e tu non capisci, “double?”, “I’d pour another one for you, Sir”.
Quei camerieri sono gli stessi che, armati di sublimi tartine di salmone con cappero o involtini di anatra, appena metti piede in terrazza si fanno avanti con fare minaccioso. Gli ordini di scuderia sono procedere a una sorta di accanimento terapeutico da antipasto.
Credo ci sia un calcolo scientifico alla base dell’alimentazione forzata operata dai camerieri: più mangi e bevi, prima riempi stomaco e vescica, prima puoi godere del soggiorno allucinogeno nel bagno del Leela – evidentemente il punto forte della struttura – e prima finisci cappottato su una sedia a vomitare, mentre l’orchestra di musica da camera suona rifacimenti di Que sera sera o del tema del Padrino.
Gli invitati al ricevimento fanno quasi tutti parte della cosiddetta élite del paese, sono la fantomatica futura classe dirigente indiana. L’abitudine ad essere serviti che quasi tutti sfoggiano con una nonchalance ostentata – talvolta, complice un tasso alcolico in parabola ascendente, sfociando nell’arroganza e nella maleducazione – è un tratto al quale, dopo un po’ di anni in India, ci si abitua. Non stupisce più.
I rapporti di subordinazione, seppur in gradi di esigenza e lusso diversi, rimangono tendenzialmente costanti e trasversali ai vari ceti sociali: il cameriere del Leela viene trattato dal miliardario come la didi (la donna delle pulizie/cuoca di casa) viene trattata dal piccolo borghese. È la dialettica padrone – servitore e qui in India è dura a morire.
Ciò che colpisce, parlando con un segmento di giovani rampanti sui quali si sono scritte e si scriveranno tonnellate di inchiostro in trattati sociopsicologici e discettazioni sui figli del boom indiano, è la velocità con la quale questi nemmeno trentenni indiani corrono attraverso le varie fasi della propria esistenza.
I soldi dei quali hanno sempre potuto godere permettono loro non solo uno stile di vita che per la maggior parte di noi quasi trentenni italiani è realmente inimmaginabile, ma al contempo li condanna a un presente vissuto già da ex. Tra un drink e l’altro, raccontandosi, si scopre che molti sono già ex impiegati, ex bancari (nel senso di amministratori delegati di una banca), ex dipendenti, ex imprenditori, ex alcolisti, ex tossicodipendenti.
Tra i 26 e 27 anni, l’impressione è che questi coetanei vivano il peso delle aspettative riposte in loro dalla famiglia, dai media e in generale dal paese, come una minaccia dalla quale scappare, correre finché si può. C’è chi si butta nelle passioni (musica e arti figurative, con esiti spesso agghiaccianti), chi prova a mettersi in proprio, slegandosi dal tradizionale business di famiglia (start up et similia) e chi, parecchi, banalmente si droga. Molto e male.
Forse questi anni qualcuno li descriverà come quelli della “New Delhi da bere” e la nuova classe dirigente indiana sarà composta da ex pisciatori dei bagni del Leela. Molti dei quali, un po’ per abitudine e un po’ per pigrizia, sono cresciuti con qualcuno sempre pronto ad aprire una porta davanti a loro.
Il lusso è un concetto relativo. E più che di lusso come valore assoluto, in generale, trovo sia più realistico parlare in termini di lusso percepito.
La percezione di lusso del sottoscritto, da quando il riksha mi ha lasciato davanti al Leela Palace (precisiamo, non proprio davanti davanti all’arco d’entrata sorretto da due elefanti in pietra e presidiato da uscieri vestiti da guardia del maharaja rajasthani, con tanto di baffo all’insù, bensì dall’altra parte della strada: i riksha non ci possono salire fino al cospetto degli elefanti del Leela Palace) ha raggiunto l’acme nei bagni della terrazza del secondo piano, dove si teneva il ricevimento di matrimonio di una giovane coppia di amici.