
Negli ultimi giorni è girato molto tra i miei contatti sui social network questo articolo di Mawuna Remarque Koutonin, pubblicato sul Guardian, in cui si torna ad affrontare il dibattito sociolinguistico del termine expat contro immigrato, secondo l’autore imbevuti entrambi di accezioni razziste figlie del concetto di white supremacy. Pensando alla comunità expat di New Delhi, forse occorre aggiornare il nostro vocabolario.
La mia personalissima definizione di expat, per chiarire quello che verrà dopo, è questa: dicasi expat un uomo o una donna che si trasferisce da un paese del primo mondo in un paese del terzo mondo e che, forte di un potere d’acquisto maggiore, è in grado di vivere nel paese d’arrivo secondo un tenore di vita decisamente più alto di quello al quale è abituato nel proprio paese d’origine.
Esempio: se dopo una giornata di lavoro a New Delhi vedo entrare la mia coinquilina in casa intorno alle 7 e mezza di sera e io non mi sono messo a cucinare, la fisso cercando di sondare la possibilità che lei si metta a cucinare qualcosa e lei alza gli occhi verso il soffitto come dire “stai col culo sulla sedia in soggiorno da stamattina, io sono in giro dalle 9 sono entrata in casa adesso e non c’è ancora un cazzo da mangiare mo spiegami perché ti tengo qui in casa a cosa servi avrei dovuto farti pagare tre quarti di affitto altroché dividere a metà e mo non iniziare con le tue cagate di ‘ho creato cultura tutto il giorno’ che non ci credi manco tu per non parlare di ‘ma qui dentro cucino sempre io’ che ci son settimane che ti pesa così il culo che se avessi un pappagallo nemmeno ti alzeresti per andare in bagno a pisciare”, di comune accordo alziamo il telefono e ordiniamo una cena completa ad asporto per massimo tre euro a testa; nella stessa situazione, in Italia, camperemmo ad aglio olio e peperoncino a pranzo e cena.
Questo per dire che in India, nella visione corrente delle persone occidentali e indiane che ci circondano, gente come noi è considerata expat. Seppur, nella maggior parte dei casi, alla canna del gas.
Io non provo alcun tipo di vergogna nel sentirmi dare dell’expat, non soffro di alcun senso di colpa da white supremacist poiché considero la parola ‘expat’ un termine ormai completamente desemantizzato, un lascito pigro di tempi in cui un bianco che si trasferiva in Asia lo faceva per approdare a condizioni lavorative inimmaginabili nel suo paese di origine. Oggi, e lo sa bene chi dal primo mondo si è trasferito nel terzo mondo o, più politically correct, in un paese in via di sviluppo, le cose non stanno più così.
Pur indicati come expat, molti di noi occidentali all’estero provano sulla loro pelle gli effetti dello spostamento del potere economico verso est, una migrazione di capitale già concreta che però, nei risvolti semantici delle parole vecchie che utilizziamo, risulta ancora impalpabile. Ci muoviamo e viviamo da expat ma, per cavarcela, facciamo sempre più mestieri che un tempo avremmo schifato, li avremmo trovati ‘svilenti’. Nell’amara e giusta ironia dei cicli storici, la nostra carnagione chiara che un tempo ci garantiva un’intoccabilità schizzinosa, oggi è diventata un asset per assurdo da rivendicare per accaparrarci lavori molto ‘svilenti’ e molto remunerativi.
Una cara amica, recentemente trasferitasi a New Delhi dopo una lunga permanenza in India del sud, qualche mese fa mi ha presentato a grandi linee lo sfavillante universo dell’intrattenimento alle feste di matrimonio indiane, un mercato in forte ascesa dove le expat di carnagione chiara sono richiestissime per il know-how genetico di somigliare al modello di bellezza e sensualità già veicolato verso i mercati asiatici dai white supremacist della generazione precedente alla nostra (Hollywood e stilisti). Il parco di belle ragazze, moltissime russe e non poche italiane, viene gestito attraverso una chat comune su whatsapp in cui, tutto il giorno, i manager indiani elencano le opportunità lavorative in zona: matrimonio nella periferia di Delhi, festa di fidanzamento a Delhi sud, festa privata a Kanpur o in Rajasthan, trasferimento e pernottamento forniti dal management…
Il compenso si aggira intorno alle 6000 rupie a serata – significa 80 euro, cioè quasi 15 cene ad asporto per due – e le mansioni richieste sono la semplice presenza in mezzo alla sala della festa, agghindate in una serie di travestimenti che comprendono: la geisha hawaiana, la finta violinista con violino senza corde “suonato” in tacco dodici, la finta percussionista di dhol che sorregge lo strumento senza suonarlo ma con turbante d’ordinanza, la tequila girl in grembiule e coroncina di diamanti, la damigella d’onore vestita in abito nuziale bianco che accoglie gli invitati chinandosi a mani giunte dicendo “Namaste” e infine le mie preferite, la donna-tavolo infilata in un vestito con montato attorno un tavolino circolare semovibile con cui la performer si aggira per la festa servendo whiskey e la donna-fontana, una ragazza vestita di tubi e lucine dai quali zampilla acqua (nota: siccome la stagione dei matrimoni è quella invernale e le feste di matrimonio solitamente si fanno all’aperto, alla donna-fontana è richiesto un primo rivestimento con muta da sub, come isolante termico).
Esiste anche un mercato più di nicchia per uomini expat, che intrattengono i festanti vestiti da guardie d’onore con pantaloni ali babà e scimitarra, da guardie del corpo occidentali munite di finto auricolare e occhiali scuri, cuochi parigini a servire cibo “continental” appaltato al catering e via dicendo.
Queste, oggi, sono le chance lavorative immediatamente abbordabili dai nostri “cervelli in fuga”, schiacciati da una narrazione altisonante di un presunto esercito di startuppari che contribuisce a rafforzare quei preconcetti che giustamente attacca Koutonin sul Guardian. Se da un lato occorre abbandonare una terminologia etimologicamente razzista, non più in grado di descrivere la realtà del mondo che ci circonda, dall’altro trovo sia necessario coniare nuovi termini – se proprio non possiamo fare a meno delle etichette – per inquadrare tantissimi della mia generazione che, facce da expat, si muovono in un mercato del lavoro dove la gerarchia sociale imposta dal primo mondo sta cambiando alla velocità della luce.
Una fetta di giovani spesso molto qualificati – al pari dei nostri omologhi africani e asiatici del flusso paese in via di sviluppo > primo mondo – che emigra arrabattandosi tra le cucine dei ristoranti thailandesi, l’insegnamento della lingua inglese negli asili privati di Pechino (spacciandosi per inglesi) e le fontane umane degli eventi di New Delhi.
Gli expat del futuro saranno sempre più quella roba lì, con buona pace del white power.
@majunteo
Negli ultimi giorni è girato molto tra i miei contatti sui social network questo articolo di Mawuna Remarque Koutonin, pubblicato sul Guardian, in cui si torna ad affrontare il dibattito sociolinguistico del termine expat contro immigrato, secondo l’autore imbevuti entrambi di accezioni razziste figlie del concetto di white supremacy. Pensando alla comunità expat di New Delhi, forse occorre aggiornare il nostro vocabolario.