Molti anni fa ho visto un documentario su una lezione universitaria di un professore – era molti anni fa, non ricordo nemmeno un nome, ma alla fine avrà tutto un senso – che spiegava ai suoi studenti la Teoria delle Stringhe. Non ci capii nulla ma ne rimasi incantato.

Era una registrazione presumo della fin degli anni ’70 e questo professore in camicia di flanella, basettone e occhiali con le lenti azzurre spiegava ai suoi alunni questa teoria che, copio da Wikipedia, “tenta di conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale, e che si spera abbia inoltre le caratteristiche necessarie per essere una teoria del tutto”. Mi ha affascinato la pretesa di trovare uno schema, una struttura sensata, che aiutasse a spiegare “tutto”; obiettivo parecchio pretenzioso e ancora, pare, non ci sono riusciti.
Isperandomi liberamente agli intenti della comunità scientifica – senza uno straccio di bagaglio tecnico dal quale attingere – una delle attività più stimolanti qui in India è provare a trovare un senso a una serie di manifestazioni dell’indole umana che, in apparenza, un senso non ce l’hanno.
Esempio numero 1.
Domenica pomeriggio i dirimpettai del primo piano festeggiavano 25 anni di matrimonio. Il quarto di secolo di vita insieme è avvenimento meritevole di celebrazioni coi fiocchi che, nella visione individualista dell’occidentale medio, si consuma all’interno delle mura domestiche, nell’intimità di famiglia e amici riuniti a festa.
In India no.
La mattina la strada è completamente occupata da un tendone eretto proprio davanti all’entrata della palazzina che, sul balcone del primo piano, mostra tre minacciosissimi amplificatori rivolti verso l’esterno. Verso le tre di pomeriggio, improvvisamente, tutto il quartiere viene coinvolto nella gioia degli sposi, quando dalle casse iniziano a risuonare i canti devozionali hindu – bhajan – filodiffusi grazie a un sistema di microfoni installato all’interno dell’appartamento dei festeggiati. È musica live gratuita in una versione un po’ meno complessa di questa. Durata della performance, non-stop, udibile distintamente anche con finestre e porte chiuse: 5 ore. Poi tutti in strada a mangiare sotto il tendone e scambiarsi convenevoli.
Esempio numero 2.
Sabato sera, orario di cena. Rincasati dopo una gita antropologica nel quartiere centrale di Old Delhi, dove vecchi artigiani e boutique di paccottiglia spiritual-freak osservano l’inesorabile passaggio di giovani backpacker con magliette psichedeliche di Ganesh e tatuaggi all’enné, troviamo il nostro proprietario di casa Prim-ji – come solito in impeccabile tenuta da colletto bianco indiano: camicia azzurrina, pantalone blu scuro, scarpa nera/marrone, odore di ascelle – a vegliare sulla misteriosa porta di lamiera materializzatasi la settimana prima al fianco dei nostri vasi di piantine culinarie italiane.
Ci spiega, mentre in casa ci prepariamo a cenare, che per ulteriore sicurezza ha deciso di installare la porta sulle scale che collegano il nostro balcone alla terrazza, per paura che i ladri possano intrufolarsi nello stabile dall’alto (il piano terra è già debitamente messo in sicurezza, con un lucchetto che inspiegabilmente chiude il portoncino in metallo circondato da un muro di cinta alto non più di 1,4 metri, contando probabilmente sul deficit di agilità della microcriminalità locale).
L’iniziativa è meritoria e non ci crea alcun problema, confidando in un’installazione da verificarsi in un futuro prossimo. Ma la solerzia di Prim-ji supera ogni aspettativa, accogliendo l’operaio responsabile del lavoro alle 21:45 della stessa sera, mentre nel soggiorno adiacente al balcone con alcuni amici provavamo a tirare le fila della giornata da turisti. L’uscio, fissato a martellate sotto lo sguardo vigile di Prim-ji, trova la sua futura sede in non meno di un’ora, mentre noi proviamo a portare avanti le nostre chiacchiere come fossimo in prima fila a un concerto degli Einstürzende Neubauten.
La casistica è virtualmente infinita – la repulsione dei giovani indiani all’uso degli auricolari, preferendo sentire la propria musica in luoghi pubblici sfruttando la potenza dei propri smartphone; gli autisti dei riksha che fermano il mezzo per chiacchierare al telefono con la moglie; i lavori di manutenzione domestica svolti durante le presunte ore di “calma” post pranzo, o meglio “L’India e la nobile arte della fresatrice delle due di pomeriggio”… – e il moto istintivo dell’occidentale, portato a racchiudere il tutto in una teoria delle stringhe sociali titolata “La legge della rottura di coglioni gratuita”, deve essere invece placato davanti alla completa assenza di malizia o volontà di arrecare danno della popolazione indiana.
Si tratta di condivisione, o “Principio dell’altruismo assoluto”, la legge naturale che impone ad ogni indiano all’interno del nostro raggio sensoriale di renderci partecipi della sua immanente buona o cattiva sorte: sono sposato da 25 anni, senti come sono contento; mi hanno chiamato a montare una porta di metallo domenica sera, senti quanto mi rode (o anche, postulato della “Condivisione dello scazzo”).
Aderire al principio di cui sopra permette di veleggiare attraverso la giungla urbana di Delhi mantenendosi placidi e sereni e, in potenza, indistruttibili, affrontando con euforia gli illusori ostacoli che la società indiana piazza davanti al nostro cammino verso l’Illuminazione.
Molti anni fa ho visto un documentario su una lezione universitaria di un professore – era molti anni fa, non ricordo nemmeno un nome, ma alla fine avrà tutto un senso – che spiegava ai suoi studenti la Teoria delle Stringhe. Non ci capii nulla ma ne rimasi incantato.